Condoni del 2023: ecco l’errore scusabile! Agenzia delle Entrate: meglio i soldi subito che un lungo contenzioso

Con la pace fiscale del 2023 in campo “l’errore scusabile”. Per l’Agenzia delle Entrate, è meglio incassare i soldi ed evitare la moltiplicazione del contenzioso.

I calcoli complicati delle varie sanatorie possono comportare errori nel versamento delle somme dovute.

Con le definizioni agevolate del 2023, previste dalla cosiddetta “tregua fiscale”, torna in campo l’errore scusabile. Per la chiusura delle liti pendenti, è invece rimasto senza soluzione il doppio binario e il rebus Inps: in questo caso, come nelle vecchie botteghe, c’è chi paga, chi strapaga e chi non paga niente.

Il cosiddetto “errore scusabile” può essere impiegato per la chiusura delle liti pendenti, di cui all’articolo 1 e unico della legge di Bilancio per il 2023, legge 29 dicembre 2022, n. 197, commi da 186 a 205, e altre sanatorie, che richiedono al contribuente di determinare e versare, mediante autoliquidazione, le imposte e le altre somme dovute ai fini delle definizioni agevolate. In alcuni casi, i calcoli sono complicati, e sbagliare è la cosa più facile che possa capitare. Ad esempio, l’errore può verificarsi nel determinare le somme dovute per la chiusura delle liti pendenti, nei casi in cui ci sono pagamenti già eseguiti in pendenza di giudizio. Al riguardo, sono apprezzabili gli interventi legislativi degli ultimi anni, anche perché è necessario evitare di aprire inutili contenziosi per differenze di pochi euro. In questo senso, si ricorda l’apertura dell’Agenzia delle Entrate, espressa nella circolare 9/E del 19 marzo 2012, che ha per oggetto la mediazione tributaria. In questa circolare, le Entrate precisano che nel caso in cui le somme versate a seguito dell’accordo di mediazione, siano lievemente inferiori a quelle dovute per un errore del contribuente che, anche oltre il termine di legge, abbia successivamente sanato l’errore, l’ufficio valuta l’opportunità di ritenere valido il pagamento, tenendo conto dell’intento deflativo dell’istituto e dei principi di economicità, nonché di conservazione dell’atto amministrativo. Le stesse valutazioni possono essere fatte nel caso di lieve ritardo nel versamento da parte del contribuente o di altre minime irregolarità.

Chiusura liti con il doppio binario e il rebus Inps senza soluzione: come nelle vecchie botteghe, chi paga, chi strapaga e chi non paga niente.

Errore scusabile “salva condoni”

In proposito, valgono anche le indicazioni fornite dall’agenzia delle Entrate, con la circolare 48/E del 24 ottobre 2011, al paragrafo 14 “errore scusabile”, nel punto in cui si legge che “gli uffici non mancheranno, tuttavia, di fare corretta applicazione del principio dell’errore scusabile …secondo cui in caso di pagamento in misura inferiore a quella dovuta, qualora sia riconosciuta la scusabilità dell’errore, è consentita la regolarizzazione del pagamento medesimo entro trenta giorni dalla data di ricevimento della relativa comunicazione dell’ufficio“.
L’errore può ritenersi scusabile nei casi in cui il contribuente abbia osservato una normale diligenza nella determinazione del valore della lite e nel calcolo degli importi dovuti. La fattispecie dell’errore scusabile ricorre in tutti i casi in cui sussistono condizioni di obiettiva incertezza o di particolare complessità del calcolo.
Dal momento che diverse sanatorie del 2023 prevedono la determinazione e il versamento, mediante autoliquidazione, delle maggiori imposte o somme dovute ai fini delle definizioni, potrebbero verificarsi – infatti – situazioni in cui il versamento eseguito risulti inferiore a quello dovuto a causa di un errore indotto dalla obiettiva incertezza sulla corretta determinazione dello stesso, non eliminabile mediante l’impiego della normale diligenza. Il principio dell’errore scusabile è applicabile sia nel caso di chiusura delle liti fiscali pendenti, sia per le altre sanatorie della pace fiscale. Insomma, meglio incassare le somme dovute, con gli interessi, che aprire un contenzioso inutile e defatigante, magari per differenze di pochi euro o per un pagamento eseguito con un ritardo di qualche giorno. Resta fermo che la fattispecie dell’errore scusabile non ricorre nei casi di omesso o errato versamento delle somme dovute dopo il primo pagamento, nei casi in cui il contribuente ha optato per il pagamento rateale. In queste ipotesi, infatti, è la stessa legge a prevedere la procedura di recupero delle somme non versate o versate in misura inferiore.

Fisco e Inps raddoppiano la pretesa e moltiplicano le liti

La nuova definizione agevolata delle liti pendenti (legge di bilancio per il 2023, articolo 1, legge 29 dicembre 2022, n.197, commi da 186 a 205), che si perfeziona con la presentazione della domanda e con il pagamento degli importi dovuti o della prima rata entro il 30 settembre 2023, che slitta al 2 ottobre 2023, in quanto il 30 settembre, di scadenza, è sabato e il primo ottobre è domenica, avrebbe potuto mettere fine a un doppio binario che resiste da molti anni, ma non ha alcuna giustificazione. Riguarda il caso, molto frequente, degli accertamenti dell’agenzia delle Entrate, con richiesta di contributi Inps, con il Fisco e l’istituto previdenziale che duplicano la pretesa e moltiplicano le liti. L’applicazione di regole diverse tra Inps e agenzia delle Entrate comporta anche la richiesta di pagamenti delle stesse somme, situazione inaccettabile, ma vera. E’ quello che succede a molti contribuenti che, dopo avere ricevuto l’accertamento dell’ufficio delle Entrate, contenente anche la richiesta dei contributi Inps, a distanza di qualche mese o anno, si vedono ripetere la stessa richiesta dei contributi, da parte dell’istituto previdenziale. In questo modo, il contribuente, se contesta l’accertamento del Fisco, deve presentare ricorso ai giudici tributari. Poi, per contestare la richiesta dell’Inps, deve presentare ricorso al Tribunale, in funzione del giudice del lavoro. Peraltro, com’è successo per le vecchie chiusure delle liti pendenti, la definizione agevolata vale solo per il Fisco, ma non per l’Inps.
                               Doppia richiesta e doppio ricorso 
Il guaio è che se il contribuente si “dimentica” di fare il ricorso al Tribunale, per i contributi Inps, a prescindere dagli esiti di quello presentato ai giudici tributari, l’avviso di addebito dell’Inps comporta l’obbligo per il contribuente di pagare le somme chieste. Può anche capitare che l’accertamento venga annullato, ma il contribuente, se non ha fatto ricorso contro l’avviso di addebito Inps, è costretto a pagare i contributi Inps indicati nell’accertamento annullato, con maggiorazioni e spese. In questi casi, i contribuenti possono presentare un’istanza di annullamento in autotutela, che, però, l’istituto previdenziale difficilmente prende in considerazione, con il paradosso di costringere il contribuente a pagare somme derivanti da un accertamento successivamente annullato.

L’altalena delle sentenze 

Capita anche che le sentenze emesse dai giudici tributari possano essere diverse da quelle del giudice del lavoro, una positiva e l’altra negativa o viceversa. La verità è che questo assurdo doppio binario, con la duplicazione delle stesse somme e il doppio contenzioso è ingiustificato e inaccettabile. In questo modo, anziché alleggerire il contenzioso, lo si alimenta, creando disorientamento ai contribuenti.
                            Chiusure liti fiscali irrilevanti per l’Inps 
Com’è successo per le precedenti versioni della chiusura delle liti, di cui all’articolo 16, della legge 289/2002, fino all’ultima definizione agevolata del 2019, di cui all’articolo 6 del decreto legge 119/2018, è anche capitato che l’istituto previdenziale non si è attivato. In questi casi, l’eventuale definizione agevolata della lite, fatta ai fini fiscali, diventa, per inerzia dell’Inps o per decadenza dei termini, chiusura definitiva anche ai fini previdenziali. Nei casi in cui l’Inps si attiva, l’istituto chiede i contributi per l’intero importo accertato, senza considerare le percentuali pagate dai contribuenti al solo fine di chiudere la lite fiscale.

Gli insegnamenti della Cassazione

Il “guaio” è che l’Inps continua a chiedere i contributi senza considerare gli insegnamenti della Cassazione. Per i giudici di legittimità, sentenza n. 8379 del 9 aprile 2014 “l’articolo 24, comma 3, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, che prevede la non iscrivibilità a ruolo del credito previdenziale sino a quando non vi sia provvedimento esecutivo del giudice qualora l’accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti all’autorità giudiziaria, va interpretato nel senso che l’accertamento, cui la norma si riferisce, non è solo quello eseguito dall’ente previdenziale, ma anche quello operato da altro ufficio pubblico come l’agenzia delle Entrate, né è necessario, ai fini di detta non iscrivibilità a ruolo, che, in quest’ultima ipotesi, l’Inps sia messo a conoscenza dell’impugnazione dell’accertamento davanti all’autorità giudiziaria anche quando detto accertamento è impugnato davanti al Giudice tributario“.

La direttiva del 2012 “dimenticata”

L’agenzia delle Entrate, in una direttiva del 28 dicembre 2012, si era riservata di fornire indicazioni in merito alle residue quote eventualmente da iscrivere sulla scorta delle determinazioni dell’Inps nel frattempo interpellato dalla stessa agenzia delle Entrate. Le “determinazioni dell’Inps” erano e sono urgenti e indispensabili, ma, dopo 11 anni, nulla è cambiato e viene lasciato alla dea bendata, con contribuenti fortunati che non pagano nulla e altri che pagano tutto e di più. In questo modo, come succede da molti anni a questa parte, per i contributi Inps, è come nelle vecchie botteghe: chi paga, chi  strapaga e chi non paga niente.

Mimma Cocciufa e Tonino Morina
Esperto fiscale del Sole 24 – Ore

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