Agenzia delle Entrate. Fisco esagerato e approssimativo: intende tassare i ricavi e non il reddito

L’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Messina, sulla base di una presunta anomalia, moltiplica la pretesa fiscale perché non riconosce i costi.

Francofonte, 14 aprile 2024. Si sente parlare spesso di “Fisco amico”, ma così non è. Sono solo parole. La realtà, infatti, è spesso il contrario delle belle parole che si dicono e si ripetono, ma alle quali nessuno crede più. Un esempio di Fisco nemico sta riguardando un contribuente della provincia di Messina alle prese con delle contestazioni dell’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Messina, per operazioni trading online. Il problema è che l’ufficio di Messina intende tassare i “proventi lordi” segnalati da una piattaforma gestita da una istituzione finanziaria estera, senza però considerare i costi sostenuti, per operazioni trading online. Per rendere l’idea, è come se, per un’impresa commerciale che ha ricavi lordi per 900mila euro e costi per 890mila euro, l’ufficio, invece di tassare, com’è giusto che sia, il reddito di 10mila euro, pretende di tassare i ricavi lordi di 900mila euro. Per conoscere la vicenda, ecco i fatti.

Il trading online – Il trading online è l’acquisto e la vendita di titoli finanziari via internet. Il contribuente, negli anni 2017 e 2018, avvalendosi di piattaforme gestite da istituzioni finanziarie estere, ha effettuato diverse operazioni trading online. Nel linguaggio economico, con le parole “trading online”, si intende la compravendita di strumenti finanziari via internet o anche attraverso canali diversi quali il telefono o il cellulare. La negoziazione viene ordinata dal trader online e realizzata tramite un intermediario finanziario autorizzato, denominato broker online. Il trader è colui che compra e vende strumenti finanziari con l’obiettivo di trarre profitti dalle variazioni degli strumenti finanziari sui quali investe. Il broker si pone come intermediario tra chi vuole comprare e vendere strumenti finanziari, fornendo servizi, software e strumenti per il trading.

La prima segnalazione del 2017 – L’ufficio, in base ad una comunicazione di “anomalia redditi (pagamenti su conti esteri)”, contesta al contribuente che non avrebbe dichiarato, per l’anno 2017, proventi lordi per 222.048,90 GBP (sterline inglesi), pari a 250.280,55 euro. La comunicazione di anomalia è sbagliata per la semplice ragione che non esiste alcun provento lordo non dichiarato per il 2017, come dimostrato all’ufficio con la documentazione bancaria esibita in occasione degli incontri avuti con i funzionari, prima dell’emissione dell’accertamento. Chiarimenti e documentazione non sono serviti a nulla, perché, per l’ufficio, “è così e basta” ed il cittadino – suddito non può contestare.

I chiarimenti non considerati dall’ufficio. Il contribuente aveva fatto presente all’ufficio di possedere un solo conto titoli non armonizzato con un istituto finanziario estero, che è stato chiuso nel mese di agosto 2018. Alla chiusura del conto, la liquidità finale di 50.063,01 USD (dollari) è stata trasferita il 15 agosto 2018 presso una banca italiana. Essendo non armonizzato, il conto titoli straniero doveva essere dichiarato nel quadro RW, con le relative plus/minusvalenze, cioè con una perdita subita nel 2017 di 3.031,83 USD (dollari). Inoltre, l’estratto conto straniero del 2018 include i dettagli della chiusura, coincidente esattamente con quanto riportato nell’estratto conto italiano, di 50.058,01 USD (dollari) al netto della spesa del bonifico di 5,00 USD (dollari). Si noti che l’estratto conto è in USD (dollari) e rappresenta l’unico documento ufficiale trasmesso dall’istituto finanziario estero all’ufficio dell’agenzia delle Entrate. L’ufficio riceve dai broker esteri le informazioni, ma non effettua un’elaborazione fiscale. Ad esempio, alla voce proventi lordi viene inserito un valore che non è la plusvalenza o altri proventi, ma la somma di tutte le operazioni effettuate nell’anno. Accade quindi che il totale delle operazioni risulta molto più elevato rispetto al valore del conto ed è normale perché lo stesso capitale può essere stato utilizzato per più operazioni di acquisto/vendita.
Da questa errata informazione, che riguarda la somma delle operazioni effettuate, l’ufficio considera “altri proventi” l’importo di 222.048,90 GBP (sterline inglesi) pari a 250.280,55 euro. Come si è detto, l’errore dell’ufficio è nel fatto che considera solo i proventi lordi, senza però considerare i costi sostenuti.
Per l’anno 2017, il conto titoli straniero, tra plusvalenze e minusvalenze, ha subito una perdita complessiva di 3.031,83 USD (dollari). Insomma, i costi sono stati superiori ai proventi lordi. Nonostante l’evidenza aritmetica, che ha comportato una perdita, in quanto i costi sostenuti sono superiori ai proventi lordi, l’ufficio di Messina ha emesso l’accertamento, notificato il 19 dicembre 2023, contestando al contribuente presunti proventi tassabili per il 2017, per 250.280,55 euro (cioè l’importo dei proventi lordi), chiedendo imposte, interessi e sanzioni, per complessivi 155.897,72 euro, oltre interessi maturandi a partire dal 29 novembre 2023. Contro l’accertamento, il contribuente ha presentato ricorso alla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Messina, ricorso che è in attesa di fissazione dell’udienza.

La segnalazione per il 2018 – In aggiunta all’accertamento per il 2017, con una successiva lettera, l’ufficio ha invitato il contribuente a presentarsi il 3 aprile 2024, per altre presunte anomalie per l’anno 2018, in base alle quali il contribuente avrebbe incassato altri “proventi lordi” dall’istituto finanziario estero per 203.552,48 GBP (sterline inglesi). In sostanza, per l’ufficio, il contribuente, in due anni, avrebbe omesso di dichiarare proventi lordi ricevuti dall’istituto finanziario estero per complessivi 425.601,38 GBP (sterline inglesi) di cui 222.048,90 per il 2017, e 203.552,48 per il 2018. Vale la pena ripetere che l’errore dell’ufficio sta nel fatto che pretende di tassare i “proventi lordi”, cioè il totale dei corrispettivi di cessione; ciò è illogico, oltre che illecito, in quanto, per legge, si devono tassare solo i redditi, cioè i proventi lordi, meno i costi sostenuti.

I chiarimenti del contribuente – Per evitare la prosecuzione di un inutile contenzioso per il 2017 e scongiurare l’apertura di una nuova lite per il 2018, in occasione dell’incontro del 3 aprile 2024, il contribuente ha presentato all’ufficio altri documenti. Come risulta dalla documentazione bancaria, nei due anni in esame non esiste alcun reddito imponibile da dichiarare in aggiunta a quanto già dichiarato, anche perché, come si è detto, le minusvalenze superano le plusvalenze. Per fortuna, la documentazione bancaria consegnata all’ufficio conferma che non esistono in alcun modo proventi lordi non dichiarati. Il contribuente si è reso disponibile per fornire qualsiasi altro chiarimento che lo stesso ufficio ritenesse necessario, con la speranza di un pronto intervento in tempi brevi, anche perché la preoccupazione è basata sul fatto che gli uffici, anche quando sono certi di perdere la lite, proseguono fino alla Cassazione. Non è giusto, perché chi ci rimette è sempre e solo il contribuente.
Per dirla tutta, l’unica persona che può beneficiare degli errori degli uffici, soprattutto quando emettono accertamenti immotivati e assurdi, è il difensore. Però, davanti a questi errori, ci rimette anche l’amministrazione finanziaria che non rispetta l’articolo 97 della Costituzione “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.

I fatti negativi e l’onere della prova – Occorre inoltre ricordare che l’onere della prova della presunta evasione è a carico del Fisco, che non ne può addossare l’incombenza sul soggetto accertato. Ed è grave il fatto che l’ufficio, non avendo provato nulla, pretenda dal contribuente di “provare” un fatto “negativo” che non esiste. Il principio che l’articolo 2697 “onere della prova” del codice civile pone in ordine al regime probatorio è chiaro: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Per principi consolidati dei giudici di legittimità, i fatti negativi, qualora integranti un fatto costitutivo, devono essere provati da chi quel diritto intende far valere, cioè, nel caso in esame, dall’ufficio. Con la locuzione “fatti negativi” si intendono fatti che non sono avvenuti, e cioè fatti non accaduti, e, quindi, “non fatti”. Da parte del contribuente, l’onere della prova non può riguardare i “fatti negativi” e cioè fatti non accaduti, e, quindi, “non fatti”.
È per questo che il contribuente non può fornire la prova degli stessi, poiché non è possibile dare la dimostrazione di un “non accadimento”. La prova diabolica che l’ufficio chiede al contribuente è quella di dare certezza a dei fatti non accaduti. Si tratta cioè di una prova contraria impossibile, tale da configurare una vera e propria “probatio diabolica”. Insomma, è assurdo che il Fisco si inventi centinaia di migliaia di euro di presunta evasione ed il contribuente debba dimostrare il contrario.

Vicenda kafkiana – Nel caso in esame, in assenza di prove della presunta evasione da parte del Fisco e in presenza di una chiara e aritmetica dimostrazione che non è stato evaso nulla, è inverosimile, inaccettabile e ingiustificabile quello che sta succedendo al contribuente coinvolto in una vicenda che sta diventando un incubo, una vicenda kafkiana, cioè una situazione paradossale, assurda e angosciante. E’ grave il fatto che l’ufficio, senza alcuna prova, in dispregio alle più elementari regole aritmetiche e in contrasto con la realtà, si sia inventato quasi 500mila euro di evasione. La sensazione è che, con l’ingresso dell’euro, si sia perso il senso della misura, non riuscendo a capire in pieno la differenza tra la nuova moneta e la vecchia lira. Infatti, si “scoprono” inesistenti evasioni di centinaia di migliaia di euro, senza pensare che, ad esempio, 500mila euro non sono 500 mila lire, ma circa un miliardo delle vecchie lire.

La prova del nove – Per ulteriore chiarezza, in occasione dell’incontro del 3 aprile 2024, è stato fatto presente all’ufficio che, come risulta dal conto corrente tenuto presso l’istituto finanziario straniero, il conto in dollari riporta:

  • al 31 dicembre 2016, Cash 14.527,62, Stock 45.880,33, totale 60.407,95 dollari;
  • al 7 agosto 2018, meno 10.220,31; al 15 agosto 2018, meno 50.063,31, totale meno 60.283,32 dollari.

Le due operazioni del 7 e 15 agosto 2018 costituiscono la chiusura del conto corrente tenuto presso l’istituto finanziario estero con il “passaggio” delle somme al conto italiano. Nelle stesse date, infatti, al netto delle spese bancarie, sono stati trasferiti al conto italiano 10.215,31 dollari (7 agosto 2018) e 50.058,01 dollari (15 agosto 2018), in totale 60.273,32 dollari (60.283,32 meno 10 euro di oneri bancari). In conclusione, nei due anni oggetto di presunte anomalie, dal saldo al 31 dicembre 2016 di 60.407,95 dollari si è “passati” a un giroconto di 60.283,32 dollari, cioè con una differenza negativa di 124,63 dollari. In questo modo, con una evidenza aritmetica incontestabile, si conferma l’inesistenza di qualsiasi pretesa impositiva, a dimostrazione del fatto che non esiste alcuna anomalia. Davanti a queste evidenze, sarebbe assurda l’ostinazione dell’ufficio a proseguire un inutile contenzioso, dispendioso per il contribuente e per l’ufficio, cioè per la collettività. Il “guaio” è che, per alcuni uffici è difficile abbandonare le liti, anche a rischio di non incassare nulla e pagare le spese di giudizio. In certi casi, infatti, aperta una lite, essi proseguono il contenzioso come se fosse il “gioco dell’oca”. Ad ogni sentenza favorevole per il contribuente, segue l’appello dell’ufficio che, in genere, non rinuncia alla lite, anche se è sicuro di perdere. Non è giusto perché i fastidi per i contribuenti, non solo in termini economici, sono notevoli.

Richiesta annullamento in autotutela – Il contribuente ha chiesto all’ufficio di eseguire con urgenza l’annullamento dell’accertamento per il 2017, anche per evitare la prosecuzione di un inutile contenzioso, e l’archiviazione dell’invito per il 2018. Nel caso in esame, gli atti dell’ufficio devono essere annullati in autotutela per avere dimostrato con i numeri, cioè con i fatti, che non esiste alcun imponibile tassabile in aggiunta ai redditi dichiarati. In proposito, gli americani dicono che nella vita, ci sono bugie, grandi bugie e statistiche. Statistiche che, alla fine, sono i numeri, cioè i fatti e non le chiacchiere o le invenzioni degli uffici. Nel caso in esame, vale il principio generale ed assoluto per tutti in ogni applicazione di regole aritmetiche: due più due fa sempre quattro e quattro meno due fa sempre due. C’è tutto quello che occorre per i diligenti e per gli incuranti e distratti. E’ da notare che quando l’errore fiscale è di aritmetica non è nemmeno il caso di richiamare l’istituto dell’autotutela perché l’errore aritmetico è più grave dell’errore sulla normativa. La conseguente correzione non deriva dall’autotutela, ma da naturale inevitabilità.

La fondatezza del ricorso può portare alla decisione del giudice in forma semplificata – Considerata la manifesta fondatezza del ricorso presentato contro l’accertamento per l’anno 2017, i giudici di primo grado potrebbero applicare il comma 3 del nuovo articolo 47 – ter, del decreto legislativo 546/1992. Esso stabilisce che il giudice può decidere, con sentenza in forma semplificata, quando ravvisa la manifesta fondatezza del ricorso. Nel processo tributario, di cui al decreto legislativo 546/1992, è stato infatti aggiunto il nuovo articolo 47 ter, rubricato “definizione del giudizio in esito alla domanda di sospensione”. Il nuovo articolo, inserito a decorrere dal 4 gennaio 2024, si applica ai giudizi instaurati in primo, in secondo grado e in Cassazione, a decorrere dal 5 gennaio 2024. Con questa modifica, il legislatore ha introdotto nel processo tributario la possibilità che il giudice decida con sentenza il giudizio già in sede di esame dell’istanza di sospensione, cioè della domanda rivolta dal contribuente al giudice tributario affinché sospenda la riscossione dell’atto emesso dall’Amministrazione finanziaria, qualora da questo atto possa derivargli un danno grave e irreparabile (articolo 47 decreto legislativo 546/1992). La concessione della sospensione della riscossione è subordinata alla prova, da parte del contribuente, del grave pregiudizio patrimoniale che la riscossione dell’atto impugnato potrebbe cagionargli, in aggiunta a quello che si può definire il “buon diritto” vantato dallo stesso contribuente. Già nell’udienza per la sospensione degli effetti esecutivi dell’atto, i giudici possono quindi effettuare un controllo più approfondito della controversia. In questo caso, il contribuente, con i documenti allegati e con i numeri, ha fatto tutto quello che era possibile, per mettere i giudici tributari nelle condizioni di emettere la sentenza. La decisione dei giudici potrà essere motivata in maniera sintetica: potrà infatti sinteticamente riferirsi a un punto di fatto o di diritto ritenuto decisivo; proprio per questo, si parla di sentenza in forma semplificata.

Uffici poco disponibili “gonfiano” il contenzioso – Del problema generato dalle segnalazioni di presunte anomalie delle operazioni trading online, si è interessato anche il giornale economico “Il Sole 24 – Ore”. In un articolo del 6 aprile 2024, annunciato in prima pagina, è stata infatti segnalata l’esistenza di “Lettere del Fisco a chi fa trading su piattaforme gestite dall’estero”. Nel commento, riportato a pagina 22 di “Norme e tributi”, l’esperto di Fisco internazionale del Sole 24 – Ore, Marco Piazza, parla dei possibili “Guai fiscali per gli appassionati di trading online”, in quanto <<alcuni uffici rifiutano di prendere atto delle evidenze dei rendiconti e pretendono di tassare l’ammontare complessivo dei “pagamenti” risultanti dallo scambio d’informazioni che, però, rappresenta la somma degli introiti lordi e non il reddito. Particolarmente insidiosa è la voce “proventi lordi” perché è costituita dal totale dei corrispettivi di cessione o di rimborso degli strumenti finanziari e di cessione di valute. Si tratta di importi che, per portafogli molto movimentati, rappresentano, spesso, multipli elevati del capitale investito e che è illogico, oltre che illecito, tassare come redditi. Sarebbe come pretendere di tassare i ricavi lordi di un’impresa commerciale e non il reddito, al netto dei costi. Ovviamente, quando l’ufficio non è disponibile ad esaminare i rendiconti, il compito si ribalta sulle Corti di giustizia, ma – a parte i costi del contenzioso e la riscossione provvisoria – è assurdo che questioni puramente “di computo” come queste non possano essere risolte in contraddittorio>>. A questo punto, si può sperare in un ravvedimento dell’ufficio per evitare inutili e dispendiosi contenziosi.

Mimma Cocciufa, Tonino MorinaEsperti fiscali del Sole 24 – Ore

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