La rivolta della Gancia, nell’aprile 1860 in Palermo dischiuse la Sicilia alla rivoluzione garibaldina

Prima che nel maggio di 160 anni fa il Generale sbarcasse, la capitale dell’Isola come i paesi del circondario, insorsero sanguinosamente repressi dalla morente tirannia dei Borboni.

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Tra gli avvenimenti più importanti che precedettero, or sono cento sessanta anni, la rivoluzione dei Mille in Sicilia con lo sbarco dei volontari garibaldini i quali nel maggio 1860 uniti ai picciotti siciliani, abbatterono il feudale arretrato dominio dei Borboni per costruire l’Unità nazionale, si annoverano le rivolte scoppiate in tutta la Sicilia nell’aprile di quel fatale anno, come è più volte accaduto sin dai Vespri del marzo 1282- a Palermo e nella Sicilia occidentale. In particolare, se è singolare che la primavera e il coincidere della settimana di Pasqua siano per la storia di Sicilia, cruciali per le rivolte verso la Libertà, ciò è a dirsi in diversi moti insurrezionali: da quello scoppiato appunto sul sagrato della chiesa dello Spirito Santo in Palermo il 31 marzo 1282, a quello del Di Blasi nell’aprile del 1795, sempre in Palermo, al sei aprile di sangue del 1849, quando l’odiatissimo regime dei Borboni (disprezzato da popolo borghesia e aristocratici, lo rammentiamo per chi se ne dimentica o non sa, perché dopo secoli di indipendenza siciliana, non solo la soppresse abolendo la modernissima Costituzione del 1812 -ottenuta mercè quel liberale illuminato che fu Lord William Bentinck e contro la volontà di Re Ferdinando IV- ma anche volle sopprimere l’autonomo Regno di Sicilia fondato da Ruggero II il normanno, con la mostruosa ed artificiale, quindi falsa, creazione del Regno delle Due Sicilie, nel dicembre 1816: da allora i siciliani insorsero contro il tiranno, fino all’epilogo) cannoneggiò Catania ribelle come tutta la Sicilia, da un anno e quattro mesi, al regime . Quindi non fu un caso che nella settimana santa del 1860, precisamente il 4 aprile -anche se la data fu forzatamente scelta perché non potevasi contenere la rabbia insurrezionale e perché gli sbirri della polizia borbonica erano attivissimi- scoppiò nella chiesa della Gancia in Palermo, retta dai padri Francescani (che sempre furono all’avanguardia rivoluzionaria nella religione come nella politica: Francesco di Bernardone non era né volle mai essere prete, ma riformò il Cristianesimo come nessuno mai!) la ormai storica e sanguinosa rivolta, detta appunto della Gancia.

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Essa fu preceduta dagli incitamenti al Comitato rivoluzionario di Palermo il quale-affermano concordemente gli storici- con quello di Messina, coordinava gli altri in tutte le città siciliane, di Giuseppe Mazzini e vòlta, con il segreto consenso di Re Vittorio Emanuele II (e forse la connivenza del Cavour il quale ufficialmente ignorava, come osteggiò nella forma la spedizione garibaldina, che sapeva comunque sostenuta segretamente dal Re sabaudo) a fare insorgere la Sicilia, in quel XIX secolo la regione più rivoluzionaria d’Europa (sì, la più rivoluzionaria, perché nel 1820, nel 1837 -in quell’anno, coincidente col colera, capofila fu Catania- nel 1848-49 per oltre un anno come si disse) onde spingere il condottiero nizzardo alla impresa di combattere per l’Unità d’Italia. I rivoluzionari, chiamati sediziosi dal governo borbonico -in quel mese sostanzialmente rappresentato dal Direttore di Polizia di Palermo Salvatore Maniscalco, brillante ma spietato funzionario (come il suo omologo di Catania, Panebianco) e dal Generale Salzano per l’esercito: il Luogotenente Principe Ruffo di Castelcicala era a Napoli alla corte del debole re Francesco II) non persero tempo e in collegamento coi comitati di Carini, Misilmeri, Corleone, Alcamo, Trapani, Piana dei Greci, decisero di muovere alla insurrezione partendo dal cuore amministrativo del governo isolano, ovvero il quartiere dell’Alloro, ove trovasi la chiesa della Gancia: a capo di essi un benestante fontaniere, Francesco Riso. V’ha da dire che nel gennaio 1860 Mazzini, sempre informatissimo di tutto, aveva scritto a Garibaldi precisando che “sento i tempi, rispetto il paese, non agirò contro il re, non cospirerò per la repubblica”,  garantendo quindi alla trama cavourriana di cui il Generale in camicia rossa era parte essenziale, il sostegno dei repubblicani storici alla causa unitaria nazionale sotto la bandiera tricolore della Monarchia sabauda: e per precisare meglio, lo ribadiva nella lettera del 2 marzo “agli amici di Palermo e Messina”: “Se l’Italia vuole essere monarchica sotto Casa Savoia sia pure; se dopo fatta vuole acclamare come liberatori e non so che altro il re e Cavour, sia pure. Ciò che tutti or vogliamo è che l’Italia si faccia, e se deve farsi deve farsi per ispirazione e coscienza propria…osate in nome dell’unità nazionale, è conditio sine qua non.”.   Il 22 febbraio il patriota Rosolino Pilo aveva scritto a Garibaldi esser pronti per la rivolta e il Generale, nella risposta del 15 marzo, ben conscio che la trama era per avverarsi ma prudente, scrive che “oggi la causa del paese è nelle mani dei faccendieri politici” (Cavour, a cui non perdonava la cessione di Nizza) e “nel tempo presente non credo opportuno moto rivoluzionario in nessuna parte d’Italia” (ergo, come vi scrisse Mazzini, muovetevi da soli e interverrò…) e soprattutto, “in caso di azione sovvenitevi che il Programma è: Italia e Vittorio Emanuele”. Qui la chiave di volta di tutto, nella convergenza straordinaria di grandi personaggi che, seppur diversi e variegati, ebbero un unico obiettivo: la nascita della Unità d’Italia che comunque, aveva scritto Mazzini a Garibaldi, ha un unico modo per essere raggiunta: “l’insurrezione di Sicilia”. Se non vi fosse stata quella, e ricordiamolo oggi pure, mai la Nazione sarebbe sòrta.

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Tornando alla Gancia, al cui moto concorsero concretamente i frati francescani di quella Chiesa , la composizione sociale degli insorti, anche qui chiara, fu sostanzialmente fatta di artigiani e piccola nobiltà: pure se nei palazzi della aristocrazia si tramavano, come nelle botteghe operaje, le fila della rivoluzione. “La principessaa Niscemi, sorella del Principe di Lampedusa, modello de Il Gattopardo, era quella che tra i nobili, ed erano molti, si dava più da fare per ospitare e nascondere patrioti nelle sue case. Il barone Riso dava continui balli al primo piano del suo splendido palazzo in via Toledo, perchè le feste servivano di copertura per le riunioni che si tenevano al piano superiore e gli uomini in abito da sera che sgattaiolavano su per le scale tra un allegro valzer e una contraddanza, davano una mano a preparare bombe per la prossima rivoluzione” (cfr. Trevelyan, in Principi sotto il vulcano). Le ragazze di buona famiglia suonavano il waltzer op.64 n.2 di Chopin, mentre chi le amava, a volte senza speranza, giurava fedeltà all’Ideale. Il filo azzurro della trama era con nodi d’Amore collegato fra la Sicilia e il Piemonte, anche (soprattutto, dicono alcuni…) dalla Massoneria: nata nel 1859 in Torino la Loggia Ausonia (che poi sarà il nucleo del rinato Grande Oriente d’Italia) per ispirazione del Primo Ministro piemontese Cavour, questa “camera di compensazione” coordinò gli insorti e spinse con metodi moderati al fine unitario, scegliendo altresì un codice rituale del tutto italiano (onde smarcarsi dalle influenze francesi e inglesi, da sempre caposaldi della libera muratoria) nonché cristiane e ispirandosi ai fasti della Roma antica: si chiamò poi Rito Simbolico Italiano. Ma per tenere uniti tutti i “Fratelli” di ogni ideologia e impostazione (e i rivoluzionari lo erano o lo furono poco dopo, in massa) la figura centrale rimase finché visse, Giuseppe Garibaldi, poi nominato Gran Maestro nazionale nel 1864.

Maniscalco capo della polizia borbonica aveva da una spia saputo per tempo che la rivolta doveva scoppiare il 4 aprile ma da buon funzionario, schierò circa duemila uomini attorno al quartiere, lasciando fare: anche il popolo palermitano aveva avuto sentore e in quei giorni fece scorta di viveri, mentre le squadre  di insorti di Carini, di Piana dei Greci e del quartiere di San Lorenzo Colli (a capo della quale, prodigo di fucili e incitatore al liberalesimo del Riso nonché tramite dei pochi cannoni costrutti dal meccanico svizzero Chertens, fu Giuseppe Bruno Giordano, patriota del rione poi sempre presente nelle campagne garibaldine) stavano sulle colline intorno alla città, pronte ad intervenire. Due muratori, tali Nicola Di Lorenzo e Domenico Cucinotta, diedero all’alba del quattro il segnale convenuto: lo scampanio della grande campana, mentre sul sagrato Francesco Riso al grido: Viva l’Italia, uccideva un soldato. Gli ottanta uomini, con il concorso di quelli dei quartieri, si batterono da leoni invano, perché sopraffatti dalle truppe regie le quali, ben attrezzate di cannoni, bombardarono la chiesa zittendo le campane e forzata la porta, la saccheggiarono, uccidendo il padre guardiano Giannangelo da Montemaggiore e ferendo altri quattro frati francescani: le informazioni di polizia erano precise, i frati rivoluzionari dovevano essere puniti severamente anche da un regime che si sperticava a professarsi cattolico e che invece, come aveva detto il Gladstone, fu la “negazione di Dio”. Francesco Riso venne ferito e portato in ospedale, dove morirà il 27 aprile: fine altrettanto infelice e rabbiosa fecero tredici dei catturati, come da sentenza del consiglio di guerra che aveva proclamato lo stato di assedio: fucilati alla schiena in ginocchio col terzo grado di pubblico esempio il 14 aprile nel pomeriggio.  Due degli insorti furono nascosti da un frate in una tomba e ivi rimasero cinque giorni allorché, scavato un foro al limite della strada, ne uscirono durante un tumulto protetti dal popolo: la “buca della salvezza” esiste ancora in Palermo.  Qualche storico indulgente verso il Borbone e Re Francesco II ha scritto che egli avrebbe voluto salvare da fucilazione i rivoltosi, le “clementi intenzioni del Re …che rifugge la effusione di sangue”, scrisse il Castelcicala a Napoli il 16 aprile, “se”, continua il medesimo, “dopo i primi fatti lo spirito pubblico non avesse imperversato”: spiegazione che ricorda la “giustificazione” per la rappresaglia delle fosse ardeatine del 1944 a Roma. Si è pure scritto di un telegramma che Francesco II avrebbe inviato per fermare l’esecuzione: ma di quel documento, come di altri di cui si suppone, non vi è naturalmente nessuna traccia.   Riscriviamo i nomi di quei patrioti -alcuni palermitani, altri dei paesi vicini- vittime della ferocissima repressione borboniana di un regime al tramonto che il mese successivo sarebbe stato spazzato via dalla libertà in camicia rossa: ad essi la città di Palermo ha dedicato una piazza e, fino al 1960, presidente della Regione il catanese Majorana della Nicchiara, ha reso pubblico omaggio (sino al 1924 il 4 aprile era festa comunale in Palermo, poi abolita):  Sebastiano Camarrone di anni 30, pizzicagnolo; Domenico Cucinotta 34 anni, muratore; Pietro Vassallo anni 40, operajo; MIchele Fanara anni 22, carbonaio; Andrea Coffaro, anni 60, operaio; Giovanni Riso anni 58, fontaniere (padre di Francesco); Giuseppe Teresi, anni 24, guardiano; Francesco Ventimiglia, anni 24 operaio; Michelangelo Barone anni 30, carbonaio; Liborio Vallone anni 44, calafato; Nicola Di Lorenzo anni 32, muratore; Gaetano Calandra anni 34, calafato; Cono Cangeri, anni 34 calafato.

La città di Palermo fu umiliata dai borbonici anche nelle sue classi aristocratiche: arrestati il 7 aprile i componenti del Comitato rivoluzionario barone Giovanni Riso di Colibrì, cavaliere Emmanuele Notarbartolo di San Giovanni, il Principe di Giardinelli, il duchino di Cesarò, il Valguarnera duchino dell’Arenella e il Principe Antonio Pignatelli, furono fatti sfilare da Maniscalco per tutta la via Toledo davanti al popolo che, in segno di rispetto, si toglieva il cappello silenziosamente, fino al carcere di Castellammare. Questi atti contro ogni strato sociale, se mai ve ne fosse stato bisogno, levarono la maschera al regime discreditandolo completamente. La vergogna fu completata dopo che le squadre dei rivoltosi a Misilmeri e nelle altre città -a Trapani venne innalzato il tricolore, ad Alcamo i gruppi corsero verso Palermo- venivano ferocemente represse, come a Carini ove dopo i combattimenti asprissimi del 18 aprile, le truppe regie si diedero al saccheggio e alla violenza, stuprando anche bambine e uccidendo senza pietà l’inerme popolazione, come anche scrisse in una lettera al marito, la Principessa di Carini. Tornato a Palermo il Luogotenente di Sicilia Castelcicala, fu cònscio della situazione, poiché scriveva a Napoli proprio il giorno del carnaio, il 14 aprile: “la notte scorsa si son fatti togliere dalla polizia tutti i batocchi delle campane… siamo ancora in una condizione violenta e la febbre rivoluzionaria non è ancora calmata”. Il 23 e 24 aprile giungevano nel porto di Palermo la fregata  “Governolo” e la corvetta “Ashton” della Marina del Regno di Sardegna: questo fece comprendere più di qualcosa al retrivo Principe che scriveva  il 26 aprile: “la presenza delle due navi ci è stata funesta… tutta l’isola è piena della voce che migliaia di emigrati sono sbarcati con armi e denaro e i tristi ch’eransi ritirati, dopo gli scontri infelici avuti con le reali truppe, sono rinfrancati, ripigliano coraggio e si preparano a una nuova riscossa”. E così sarà: il 29 aprile il patriota Nicola Fabrizi scrive da Malta il famoso telegramma a Garibaldi, che lo convincerà a partire: “L’insurrezione vinta nella città di Palermo si sostiene nelle provincie: notizie raccolte da profughi giunti Malta su navi inglesi”. Il popolo in ogni sua classe come la lava dell’etneo e prometeico vulcano, era sòrto, quando inconsciamente (le classi contadine che, scrissero dopo gli studiosi, per intrinseca ignoranza non potevano tutto capire ma “sentivano” i tempi nuovi e con l’intuito che sempre le caratterizzò, si muovevano con istinto e a volte, ferocia) quando consciamente (congiurati, intellettuali) perché tutto doveva cambiare.

Alle porte era il 5 maggio 1860, la nascita di una Nazione  dalla Sicilia al Continente: e dallo scoglio genovese di Quarto, verso la Sicilia, Garibaldi scriveva al Re: “So bene che m’imbarco per una impresa pericolosa ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella devozione dei miei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: viva l’unità d’Italia! Viva Vittorio Emanuele, suo primo e bravo soldato!”

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