Fisco online manda in tilt gli uffici e i cittadini: dialogo tra sordi

Il contenzioso fiscale è diventato il “gioco dell’oca”. La mancanza di confronto con i contribuenti genera una moltiplicazione di istanze e risposte, che però non risolvono il problema.

Il progetto “carta zero”, lanciato più di 30 anni fa, è rimasto solo nelle intenzioni del legislatore, anche perché la carta, cioè i documenti, sono spesso duplicati o triplicati per la necessità di esibirli agli uffici o di averli a disposizione per qualsiasi richiesta degli stessi uffici o da altri enti impositori. Il Fisco sempre più telematico degli ultimi anni doveva anche servire per raggiungere l’obiettivo “carta zero”. Belle intenzioni che, però, alla prova dei fatti, sono rimaste tali, con l’aggravante che, in questi ultimi due anni, a causa del coronavirus, il dialogo Fisco – cittadini in presenza è scomparso. Parlare con qualche funzionario è diventata un’impresa ed il confronto con gli uffici è spesso virtuale, affidato ai messaggi per posta elettronica ordinaria (Peo) o per posta elettronica certificata (Pec).

“Fisco contribuenti”, dialogo tra sordi

In alcuni casi, per la mancanza di un confronto diretto, si assiste ad un dialogo tra sordi, con i contribuenti costretti a presentare più istanze per lo stesso problema e l’ufficio che risponde più volte senza però risolvere il problema. Ed è quello che è capitato ad un contribuente che è già arrivato alla terza istanza.
Ecco i fatti. Un contribuente, il 17 novembre 2021, riceve una comunicazione di irregolarità, cosiddetto avviso bonario, con richiesta di pagamento per 882,00 euro, riferita al marito deceduto nel 2019. Il contribuente, tramite il canale telematico Civis, fa presente che la comunicazione deve essere annullata perché non è dovuta alcuna imposta, già versata a seguito di ravvedimento, che spesso il sistema di controllo del Fisco non “intercetta”.
A seguito della richiesta di assistenza tramite il “Civis”, il 13 dicembre 2021, viene emessa una nuova comunicazione, di parziale accoglimento, ma con una residua richiesta di pagamento per 538,10 euro, di cui imposte per presunto omesso versamento di una rata dell’addizionale regionale per 462,26 euro, sanzioni 46,23 euro e interessi 29,61 euro. In questa seconda comunicazione, l’ufficio, correttamente, ha cancellato le sanzioni sugli altri versamenti eseguiti in ritardo nel 2020, proprio in considerazione del fatto che il contribuente era deceduto nel 2019.
Come chiarito nella seconda lettera inviata all’ufficio per posta elettronica certificata (PEC) il 21 dicembre 2021, la residua richiesta dell’ufficio di 538,10 euro doveva essere annullata per la ragione che non è dovuta alcuna imposta, in quanto l’importo chiesto è stato versato in data 8 giugno 2020, con il ravvedimento senza sanzioni perché il contribuente era deceduto.

Le sanzioni non sono trasmissibili agli eredi
L’ufficio, a seguito della seconda lettera, con una nuova comunicazione, terza versione, riduce ulteriormente la richiesta di pagamento da 568,65 euro a 369,36 euro; in questa comunicazione, pervenuta per posta elettronica certificata il 24 dicembre 2021, l’ufficio, dopo avere cancellato ogni richiesta a titolo di imposte, fa però miracolosamente “resuscitare” le sanzioni che aveva già correttamente annullato nella seconda comunicazione, elaborata il 13 dicembre 2021.
Nella comunicazione inviata dall’ufficio il 24 dicembre sono infatti chieste sanzioni per 336,46 euro, più interessi 32,90 euro, in totale 369,36 euro. Vale la pena ripetere che le sanzioni di 336,46 euro, già correttamente cancellate nella comunicazione elaborata il 13 dicembre 2021, non sono dovute perché, per legge, le sanzioni non sono trasmissibili agli eredi (articolo 8, decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472).
A questo punto, il contribuente, dopo avere tentato inutilmente di parlare con qualche funzionario, perché quasi tutti in smart working, cosiddetto “lavoro agile”, il 27 dicembre 2021 ha inviato una terza lettera per posta elettronica certificata, sperando di trovare un funzionario più attento.

Autotutela “dimenticata”
Il fatto che gli uffici non abbiano alcun obbligo di risposta alle istanze presentate dai cittadini costituisce un problema dell’attuale complicato sistema fiscale. In questa grande confusione fiscale, sicuramente una delle peggiori degli ultimi 20 anni, l’autotutela, oggi più che mai, appartiene al passato, tanto è vero che, alle richieste
dei contribuenti, spesso gli uffici restano in silenzio. Silenzio che, per i contribuenti, è peggio di una risposta negativa.
Come dimostra la vicenda sopra illustrata, le richieste di annullamento in autotutela dei cittadini vengono spesso lasciate “lettera morta”, nel senso che gli uffici non le prendono in considerazione e nemmeno rispondono alle sollecitazioni dei cittadini ingiustamente disturbati.
L’autotutela è lo strumento che, in materia tributaria, impiega il cittadino per farsi ascoltare dagli uffici quando ritiene di avere subìto un’ingiustizia.
Per una giusta autotutela, gli uffici devono anche ricordarsi della regola non scritta, ma sempre valida, del buon senso. Se però l’ufficio non ha alcun obbligo di risposta in tempi certi, ed il contribuente non ha alcuna tutela giurisdizionale, l’autotutela serve a poco o nulla.
La verità è che si continua a parlare di Fisco “amico”, ma la realtà è profondamente diversa. Se è vero però che il Fisco deve essere amico dei cittadini, innanzitutto si deve ripartire dall’autotutela. Per una vera autotutela, è necessario che il Fisco sia obbligato a rispondere alle istanze dei cittadini.
Perché l’autotutela, così com’è, senza obbligo di risposta in tempi certi, serve a poco o nulla. Così come, soprattutto in questi ultimi anni, sono pochi i funzionari degli uffici che
si assumono la responsabilità di annullare gli atti sbagliati in tutto o in parte.
La domanda che si fanno è sempre la stessa: “chi me lo fa fare?”.
Il contenzioso è diventato il gioco dell’oca
La mancanza di dialogo con gli uffici, unita al fatto che l’autotutela sembra appartenere al passato, ha come conseguenza il fatto che negli ultimi anni il contenzioso è diventato il “gioco dell’oca” con alcuni uffici che proseguono la lite, obbligando il contribuente a difendersi fino alla Cassazione per vedersi riconosciute le proprie ragioni su questioni pacifiche. Ed è quello che sta capitando ad un cittadino siciliano che, dopo avere vinto il ricorso in primo grado, su un problema da anni risolto a favore dei contribuenti e che riguarda i crediti spettanti da dichiarazioni omesse, ha ricevuto l’appello dell’ufficio e, quindi, è costretto a proseguire il contenzioso.
La vicenda è paradossale perché pure la moglie aveva instaurato un identico contenzioso, con ricorso in primo grado e sentenza favorevole, ma questa volta definitiva, perché l’ufficio non si è appellato.

Le cartelle per le dichiarazioni omesse
Ecco i fatti. Nel 2013, marito e moglie ricevono due cartelle, con richiesta di pagamento di somme per imposte, sanzioni e interessi, in quanto le dichiarazioni annuali relative al 2008, Iva e redditi, erano state presentate dopo 90 giorni dalla scadenza e, perciò, considerate “omesse”. Per questo motivo, in sede di controllo automatizzato, il sistema dell’anagrafe tributaria non aveva riconosciuto i crediti riportati l’anno successivo nelle dichiarazioni, modelli Iva 2010 e Unico 2010, per l’anno 2009.

Il credito da dichiarazioni omesse va riconosciuto

Oramai è pacifico che i crediti da dichiarazioni omesse, se spettanti, devono essere riconosciuti dagli uffici. Per il contribuente, basta dimostrare l’effettiva esistenza del credito, applicando le regole indicate nella circolare 21/E del 25 giugno 2013. Sono anche queste le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate con la comunicazione di servizio n.39, del 14 agosto 2013.
Nella direttiva, l’Agenzia delle Entrate, richiamando la circolare 21/E del 25 giugno 2013, avverte che, già in sede di assistenza sulla comunicazione di irregolarità, cosiddetto avviso bonario, al contribuente deve essere concessa la possibilità di dimostrare l’esistenza contabile del credito per il  riconoscimento immediato dello stesso. Nei casi in cui il credito della dichiarazione omessa è effettivamente spettante, l’ufficio lo deve riconoscere in tempo reale.
Le sentenze favorevoli per i contribuenti
Nel rispetto delle indicazioni fornite dall’agenzia delle Entrate e sulla base dei principi univoci e consolidati della Cassazione (Cassazione n.1658/2016; n.13378/2016; n.16244/2018; n.20119/2018; n.1291/2019; n.17956/2019; n.15527/2020), marito e moglie hanno vinto i ricorsi in primo grado, con sentenze della Commissione tributaria provinciale di Siracusa, n.2865/2021, del 13 luglio 2021, depositata il 4 agosto 2021, per la moglie, e n.3222/05/2021, depositata il 21 settembre 2021, per il marito.
La sentenza favorevole per la moglie è definitiva
La sentenza di primo grado per la moglie è definitiva per acquiescenza dell’ufficio, che, ragionevolmente, non ha presentato il ricorso in appello, il cui termine è scaduto il 28 febbraio 2022. Diventa perciò incomprensibile il fatto che, per il contenzioso del marito, con gli stessi rilievi e le stesse motivazioni del contenzioso della moglie, l’ufficio abbia invece voluto proseguire il contenzioso, notificando l’appello il giorno 11 marzo 2022.
E’ inaccettabile il comportamento dell’ufficio che, in situazioni perfettamente uguali, per il contenzioso relativo alla moglie presti acquiescenza alla sentenza dei giudici di primo grado, mentre per l’altro contenzioso relativo al marito presenti, in modo incomprensibile e persecutorio, un appello fuori da ogni logica, in palese contrasto con i
principi consolidati dei giudici di legittimità, nonché con le indicazioni fornite dalla stessa Agenzia delle Entrate.
La domanda senza risposta è “perché l’ufficio si è comportato in modo diverso”? Perché, per essere ancora più chiari, l’ufficio, in due situazioni perfettamente uguali, per la moglie presta acquiescenza alla sentenza dei giudici di primo grado, mentre per il marito presenta l’appello?

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