Agenzia delle Entrate: I giudici tributari annullano gli atti dell’agenzia emessi su presunzioni cervellotiche e inconsistenti

Bocciati gli accertamenti del Fisco a caccia di evasioni inesistenti senza alcuna “prova”. Basta con la “probatio diabolica” che crea tante disfunzioni negli uffici del Fisco a discapito del contribuente.

Francofonte, 11 febbraio 2024. Stop alle presunzioni del Fisco. Per i giudici tributari, devono essere annullati gli accertamenti dell’agenzia delle Entrate emessi sulla base di semplici presunzioni. La recente evoluzione giurisprudenziale in materia è univoca e consolidata nel bocciare gli accertamenti dell’ufficio emessi in mancanza di qualsiasi prova della presunta evasione accertata. In questo modo, rischiano di andare in “fumo” molti degli accertamenti emessi negli ultimi anni dagli uffici dell’agenzia delle Entrate, basati su presunzioni, senza prove sufficienti a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Tra i casi più frequenti, si citano le indagini finanziarie, cosiddetti controlli bancari, con l’ufficio che considera erroneamente “fittizi” i conti dei soci di società di persone o di società a responsabilità limitata a base ristretta azionaria. In tema di indagini finanziarie, sono anche frequenti gli accertamenti emessi negli anni passati con l’ufficio che, pur in presenza di conti bancari con scoperture bancarie, ha emesso accertamenti di centinaia di migliaia di euro, chiedendo al contribuente di fornire una prova contraria impossibile, tale da configurare una vera e propria “probatio diabolica”.

I conti dei soci considerati “fittizi” dall’ufficio

I giudici di legittimità, se l’ufficio non “prova” l’evasione, annullano gli accertamenti, senza alcun incasso per le casse dello Stato e il rischio di pagare le spese di giudizio. Ed è quello che è successo per un contenzioso relativo al 1998, cioè 26 anni fa, con l’Agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Messina, che aveva “copiato” i rilievi operati dalla Guardia di Finanza nei confronti di una società a responsabilità limitata, con estensione delle indagini finanziarie ai soci. La Cassazione, con la sentenza n.33596, depositata il 18 dicembre 2019, ha annullato l’accertamento dell’agenzia delle Entrate. Per la Cassazione, le indagini bancarie sul socio non possono essere usate per fondare l’accertamento a carico della società di capitali, senza la prova, anche solo presuntiva, di un “collegamento”, cioè della riferibilità delle operazioni bancarie all’attività d’impresa. Come insegnano i giudici di legittimità, con la predetta sentenza 33596/2019, l’Agenzia delle Entrate può legittimamente estendere le indagini finanziarie ai soci, ma solo in presenza di elementi idonei a fare ritenere che i conti dei soci sono, in realtà, riferibili alla società, che li ha usati per occultare ricavi. La richiamata sentenza della Cassazione n. 33596/2019 riguarda un accertamento operato dall’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Messina, per l’anno 1998, che, peraltro, dopo essere stato annullato dai giudici di primo grado, è stato poi sorprendentemente riconosciuto legittimo dai giudici di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Messina, con la sentenza n. 102/02/12, depositata il 17 settembre 2012. Per fortuna, la Cassazione ha rimediato alla svista dei giudici di secondo grado, accogliendo il ricorso della società. Per i giudici di legittimità, <<Le indagini bancarie nei confronti di una società a responsabilità limitata possono essere estese ai conti correnti dei soci della stessa solo se sussistano elementi indiziari per far ritenere che tali conti sono stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti>>. In definitiva, se il Fisco non prova che i conti sono fittizi, è escluso che i movimenti bancari del conto corrente del socio siano da considerare ricavi della società. Nello stesso senso, si veda anche l’ordinanza 9212/2018 della Suprema Corte di Cassazione, depositata il 13 aprile 2018.

Onere della prova a carico dell’ufficio

Gli uffici, per evitare la prosecuzione di contenziosi inutili, dispendiosi e senza alcun incasso per l’erario, devono tenere conto delle novità introdotte, in materia di onere della prova, dall’articolo 6 della legge di riforma della giustizia tributaria del 31 agosto 2022, n. 130, che ha inserito il comma 5 – bis, all’interno dell’articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.546. La norma, cui va riconosciuto il carattere di ius superveniens, cioè di diritto sopravvenuto favorevole per il contribuente, in vigore dal 16 settembre 2022, applicabile anche per i procedimenti in corso, stabilisce che: <<L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni>>. La norma pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, che non ne può invece addossare l’incombenza sul soggetto accertato.
E’ evidente che spetta all’ufficio di “provare” i fatti costitutivi della pretesa fiscale. Illuminante in materia, sul nuovo corso di ripartizione dell’onere della prova, è la sentenza n. 3856 del 23 novembre 2022, della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa, sezione 5, che, inserendosi nell’alveo della riforma, ha sovvertito la concezione secondo la quale spetterebbe al contribuente l’onere della prova ovvero della probatio “diabolica” circa la mancata percezione del maggior reddito.
Secondo il Collegio siracusano, infatti, la nuova norma introduce una regola speciale del diritto tributario per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere probatorio e, pertanto, è inequivocabile che l’ufficio debba provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazione. Sullo stesso filone, in tema di applicazione dell’onere probatorio introdotto dall’articolo 6 della legge 31 agosto 2022, n.130, si vedano la sentenza n.293/01/2022 della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Reggio Emilia, secondo cui l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare in maniera circostanziata e puntuale la propria pretesa, indicando le ragioni oggettive (e non le presunzioni!) su cui si fonda la maggior base imponibile. In assenza di tale specifica dimostrazione, l’atto impositivo deve essere annullato per violazione della norma sopra citata. Nello stesso senso, con la nuova norma che pone ex lege l’onere della prova a carico del Fisco, si veda la sentenza della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Messina, n.9214/2023, depositata il 15 novembre 2023. Con questa sentenza, i giudici di secondo grado annullano l’atto impositivo e rigettano l’appello dell’ufficio <<in mancanza di elementi probatori forniti a riprova dei fatti affermati>>; per i giudici di secondo grado la <<prova oggi pretesa dal riformato processo tributario che, con l’articolo 6 della legge 130/2022, che ha introdotto il comma 5 – bis nell’articolo 7 del decreto legislativo 546/1992, esige che il Giudice valuti le prove agli atti, comprese quelle che possono essere offerte dagli uffici, in corso di giudizio, purché riguardino i fatti dedotti, ed “annulli l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o è insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa e l’irrogazione delle sanzioni”>>.

Il Fisco deve “provare” l’evasione accertata

Al riguardo, si ricorda che fino a quando c’era il cosiddetto segreto bancario, salvo particolari eccezioni, gli uffici non potevano accedere ai conti bancari dei contribuenti. Una modifica sostanziale alla normativa, in materia di deroga al segreto bancario, è intervenuta con l’articolo 18 della legge 413 del 30 dicembre 1991, in vigore dal 1° gennaio 1992. Un’altra importante modifica è quella apportata agli articoli 32, del decreto sull’accertamento, D.P.R. 600/1973, e 51 del decreto Iva, D.P.R. 633/1972, dalla legge 311/2004, Finanziaria 2005, che, in pratica, consente l’accesso ai conti bancari dei contribuenti in “odore di evasione”. E’ curioso segnalare che, quando non si potevano fare i controlli bancari, perché vietati dal segreto bancario, gli uffici si lamentavano perché, a loro dire, non potevano scovare gli evasori. Da quando, invece, è possibile fare i controlli bancari, alcuni verificatori della Finanza e certi uffici si inventano evasioni cervellotiche, inesistenti e fuori dal mondo reale, senza però fornire alcuna prova dei presunti redditi accertati. Per essere valido l’accertamento del Fisco, l’ufficio deve provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale, valorizzando, ad esempio, strumenti, quali le indagini di natura finanziaria o patrimoniale, dalle quali emerga materia imponibile sottratta ad imposizione (a titolo esemplificativo, versamenti ingiustificati) che possano provare i presunti incassi accertati. In alcuni casi, gli uffici, senza alcuna prova, in dispregio alle più elementari regole aritmetiche e in contrasto con la realtà, si inventano centinaia di migliaia di euro di evasione. La sensazione è che, con l’ingresso dell’euro, si sia perso il senso della misura, non riuscendo a capire in pieno la differenza tra la nuova moneta e la vecchia lira. Infatti, si “scoprono” inesistenti evasioni di centinaia di migliaia di euro, senza pensare che, ad esempio, 500mila euro non sono 500 mila lire, ma circa un miliardo delle vecchie lire, senza però “provare” nulla della presunta evasione.

I fatti negativi e l’onere della prova

Il principio che l’articolo 2697 “onere della prova” del codice civile pone in ordine al regime probatorio è chiaro: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Per principi consolidati dei giudici di legittimità, i fatti negativi, qualora integranti un fatto costitutivo, devono essere provati da chi quel diritto intende fare valere, cioè, nei casi di accertamento fiscale, dall’ufficio delle Entrate. Con la locuzione “fatti negativi” si intendono fatti che si assume non siano avvenuti, e cioè fatti non accaduti, e, quindi, “non fatti”. Da parte del contribuente, l’onere della prova non può riguardare i “fatti negativi” e cioè fatti non accaduti, e, quindi, “non fatti”. In questi casi, è per questo che il contribuente non può fornire la prova degli stessi, poiché non è possibile dare la dimostrazione di un “non accadimento”. La prova diabolica che l’ufficio chiede al contribuente è quella di dare certezza a dei fatti non accaduti. Si tratta cioè di una prova contraria impossibile, tale da configurare una vera e propria “probatio diabolica”.

Mimma Cocciufa e Tonino Morina – Esperti fiscali del Sole 24 – Ore

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