Giulio Regeni ancora fango sulla sua morte. La madre: “Sul suo volto sfigurato ho visto il male del mondo”

Giulio Regeni aveva 28 anni, non era un bamboccione che viveva a casa di mamma e papà alla soglia dei trent’anni,  ma un ricercatore che da anni viveva all’estero per studiare. Stava ultimando il dottorato di ricerca alla Cambridge University, uno degli atenei più prestigiosi al mondo, analizzando la difficile situazione politica dell’Egitto post “primavera araba”. È morto, dopo otto giorni di torture.

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 “Sono la mamma di Giulio, non è facile essere qui. È il dolore necessario, ce lo diciamo ogni giorno a casa, ma ora dobbiamo dircelo tutti insieme. Perché non è un caso isolato, come dicono gli egiziani. Questo caso ‘isolato’ lo analizzerei da due prospettive. Se pensiamo a quello che è successo a un cittadino italiano, forse è un caso isolato. Ripenso a un amico e a una professoressa con cui ho discusso: è dal nazifascismo che non viviamo una morte sotto tortura. Ma noi non siamo in guerra, Giulio faceva ricerca, era un ragazzo di oggi. È morto sotto tortura. Poi mi riferisco a quanto hanno detto gli egiziani, la parte amica degli egiziani: lo hanno ucciso come un egiziano. Noi abbiamo educato i nostri figli ad aprirsi al mondo. E adesso siamo qui. Ma volevo dirvi delle cose di Giulio. Non era un giornalista, non era una spia, era un ragazzo del futuro, perché se il suo essere non è stato capito, è del futuro e non di oggi“.

Queste le parole della madre di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto. Chiede che finalmente si faccia chiarezza sulla morte del figlio e lo fa dalla sala del Senato intitolata ai Caduti di Nassirya.

La conferenza stampa è stata convocata dal senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per i diritti umani. “Era necessario – ha detto Manconi – per i genitori di Giulio rinnovare pubblicamente qui il loro dolore affinché la verità sulla sorte di loro figlio non venga consegnata all’oblio“. Manconi ha ripercorso il susseguirsi delle versioni ufficiali del governo egiziano sulla fine del ricercatore italiano, ricordando i tratti di vera e propria «oscenità» delle ricostruzioni del Cairo.

Esprime “fiducia nel procuratore Pignatone, una risorsa fondamentale. Ma – insiste – si deve anche operare con una determinazione maggiore di quella sin qui adottata. Credo si debba porre in tempi urgenti la questione del richiamo in Italia del nostro ambasciatore in Egitto “per consultazioni”, formula che sintetizza un gesto non solo simbolico per far comprendere come il nostro Paese segua il caso considerandolo elemento discriminante per le relazioni future tra Italia ed Egitto. Ritengo anche necessario rivedere le relazioni diplomatico-consolari. Sulla scorta del caso Regeni e di quel rosario di persone sottoposte a torture e violazioni quotidiane. Un tale provvedimento avrebbe sicuramente effetti non insignificanti sui flussi turistici dall’Italia all’Egitto. I rapporti non devono essere rotti, ma sottoposti a una revisione particolarmente approfondita. Tra due Stati la questione della tutela dei diritti fondamentali non è accessorio secondario“.

Soltanto grazie alla mobilitazione che c’è stata del Paese – gli fa eco Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni – l’Egitto ha fatto una piccola marcia indietro rispetto alla versione secondo cui Giulio sarebbe stato ammazzato da cinque banditi. Ma senza una mobilitazione simile – ha avvertito l’avvocato – domani ce ne vendono un’altra”.

Tante cose sono state dette e scritte su Giulio Regeni e, forse, è il caso di fare chiarezza, specialmente alla luce degli infamanti commenti che si leggono su alcune pagine social e su alcuni quotidiani.

Giulio Regeni, 28 anni, si è laureato ad Oxford e stava ultimando un dottorato di ricerca alla Cambridge University con una tesi sul movimento sindacale egiziano. Studiava il Medio oriente e le dinamiche politiche in atto all’indomani della cosiddetta “primavera araba”. Tra i commenti più diffusi: “perché non stava a casa? Perché non si faceva i fatti suoi? Ma che andava a ricercare in Egitto? Era una spia, vicino ai terroristi…” e altri molto più offensivi da “esperti di politica estera da tastiera”. 

Era lì per studiare e analizzare un mondo in trasformazione e non lo si può fare dal divano di casa di mamma e papà.

L’autopsia (la seconda sul corpo di Giulio è stata eseguita a Roma) ha rivelato le atrocità subite: scosse elettriche, tagli con lame affilate, colpi talmente violenti da fratturargli le costole, causare lesioni alla colonna vertebrale, emorragia celebrale. La tortura è durata dai 5 ai 7 giorni almeno due volte al giorno “col chiaro intento di estorcere informazioni”.

Torture inferte da carnefici esperti, non semplici criminali.

Dal ritrovamento del corpo il governo egiziano guidato da Al Sisi sono state date cinque differenti versioni: dall’incidente stradale (smentito dalle autopsie), omicidio a sfondo omosessuale, “banale atto criminale” ad opera di cinque rapinatori, uccisione portata a termine per destabilizzare il governo del generale Al Sisi, spia dei fratelli musulmani.

Banale atto criminale opera di cinque rapinatori: dal ministero degli esteri egiziano la settimana scorsa è arrivata la notizia dell’uccisione dei quattro (o cinque) componenti della banda di rapinatori che sarebbe collegata alla morte del dottorando italiano. Si tratterebbe, stando alla polizia locale, di una banda specializzata nelle rapine agli stranieri, portate a termine grazie a delle false uniformi della polizia.

Così spariscono eventuali testimoni vivi, aumentando le tante perplessità sul caso: perché torturare per una settimana un ragazzo di 28 anni per un semplice furto? Perché  i documenti di Giulio sarebbero stati ritrovati molte settimane dopo ancora nella casa di un parente di un rapinatore (la sorella del capobanda, secondo la versione ufficiale).

Per l’avvocato Ballerini: “È l’ennesimo depistaggio. Ad eccezione dei documenti d’identità, gli altri documenti fatti ritrovare non appartengono a Giulio. Abbiamo un dubbio solo sul portafogli. Stiamo nominando degli avvocati al Cairo e chiediamo la consegna degli stessi elementi. Vedremo chi verrà dall’Egitto il 5 aprile. Saranno investigatori che incontreranno i nostri vertici di polizia. Dovrebbero portare gli elementi ancora mancanti: tabulati, eventuali video, verbali. Manca tanto. Abbiamo acquisito il referto dell’autopsia del Cairo ma non sappiamo neanche come Giulio fosse vestito. Non sappiamo cosa porteranno e quale sarà il loro atteggiamento, non ci aspettiamo l’ultima parola per il 5 aprile. Per questo chiediamo che l’attenzione resti altissima. Che la mobilitazione del Paese non smetta mai, altrimenti domani ci venderanno un’altra verità. Di certo Giulio non era una spia. Lo dice il suo conto corrente bancario: Giulio indossava i vestiti del padre per risparmiare”.

In attesa del 5 aprile, data in cui si chiariranno, forse, le posizioni dell’Italia, resta da fare alcune considerazioni: l’Egitto è uno dei Paesi al Mondo con la più bassa libertà di stampa; l’uso della tortura e la reclusione per motivi ideologici non sono casi isolati; Giulio Regeni scriveva sul mondo del lavoro e liberi sindacati e su come non demordessero nel far sentire la propria voce. 

Dopo l’inoltro di una circolare da parte del Governo che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale Etuf, col chiaro intento di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e disinnescare il potere dei lavoratori, il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano, si sono incontrati in una riunione straordinaria e molto partecipata.

Proprio l’alta partecipazione alla riunione fa capire quanto il sindacalismo indipendente sia ancora molto attivo in Egitto.

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