Vent’ anni di storia del movimento antiracket. Bilanci positivi, anche se ancora manca qualcosa

Si è tenuta mercoledì 13 aprile la conferenza “Pizzo: la storia degli imprenditori che hanno alzato la testa”, promossa dal Fai antiracket Catania con il contributo delle Associazioni Fai della Provincia e della Federazione Nazionale, nell’Aula magna del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania.

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Mercoledì scorso si è tenuta la conferenza “Pizzo: la storia degli imprenditori che hanno alzato la testa” a cui hanno aderito in qualità di relatori Pippo Scandurra, Presidente nazionale Fai, Salvatore Tognolosi, vice questore aggiunto della Polizia di Stato, che ha sostituito Antonio Salvato, dirigente della Squadra Mobile di Catania, Filippo Conticello, giornalista e autore del volume “Storia del movimento antiracket 1990-2015”, attraverso il quale la convention trae spunto di riflessione, Nazareno Prinzivalli, membro dell’Associazione Antiracket di Catania, intervenuto al posto di Walter Ansorge, Presidente Fai Catania.

Oltre a loro, fuori tabella, sono intervenuti, Gabriella Guerini presidentessa dell’As.a.a.e, Mauro Mangano, Coordinatore Regionale Fai, e Franco Nicotra imprenditore e dirigente del Fai antiracket.

La conferenza è stata moderata dalla prof.ssa Rita Palidda che ha subito evidenziato l’importanza delle Associazioni antiracket nella gestione di fenomeni radicati capillarmente nel tessuto sociale, come le associazioni mafiose. La funzionalità di tali associazioni antiracket è strettamente legata ad una forma di collaborazionismo con forze dell’ordine, la giustizia e i cittadini vittime di estorsione, ma alcuni casi hanno purtroppo dimostrato che dietro la nascita di alcune associazioni antiracket si cela una certa inadeguatezza o peggio ancora un certo “tornacontismo”.

Le associazioni di stampo mafioso, radicate nel territorio, mimano i meccanismi trans-attivi ed economici della società, in maniera innaturale, quali l’assicurazione contro i rischi, l’assunzione del personale, il recupero crediti, la concessione di prestiti, quindi è necessario che tali interferenze con la legalità ed il normale svolgimento delle attività economico-finanziarie cessi.

E’ la cosiddetta alternativa allo Stato, sopratutto quando il cittadino insoddisfatto, non si sente tutelato da esso. Le associazioni mafiose curano moltissimo la simbologia culturale dei rapporti che instaurano con le proprie vittime, fingendosi garanti di una certa protezione a discapito dell’economia e della serenità della vittima.

Tutto ciò fa parte della complessità del fenomeno del racket e la difficoltà dell’estirpamento di tale fenomeno.

Purtroppo, solo grazie alla determinazione della vittima nel voler denunciare, senza ripensamenti, si concretizza la buona riuscita di un processo contro un’estorsione mafiosa.

Sicuramente una grande ricchezza dell’associazionismo è la capacità di seguire le vittime con tutto un apparato di riflessioni, di elaborazioni di proposte, di formazione di professionalità che non si trovano facilmente negli apparati pubblici o nei luoghi formalizzati delle istituzioni. L’associazione antiracket risulta quindi il più valido strumento nella lotta al racket poiché fornisce supporto psicologico, economico, legale, ma soprattutto umano alle vittime.

Grazie a tutti questi anni di attività sul territorio l’associazionismo antiracket, ma più in generale antimafia, trova riconoscimento anche nell’ambito legale avendo la possibilità di costituirsi parte civile nei processi, e in ambito economico, dato che ha accesso ai Fondi di Solidarietà elargiti per le vittime.

Di certo non è tutto oro ciò che luccica e alcune associazioni antiracket non offrono un vero supporto nella denuncia del racket ed è anche vero che alcuni scopi sono puramente opportunistici e poco democratici, ma occorre lavorare molto in questa direzione, per offrire una collaborazione attiva alle vittime.

Nonostante i miglioramenti, nella lotta al racket, molte associazioni non hanno ancora avviato il giusto metodo per intervenire in una situazione così delicata. In taluni casi è stato riscontrato un vero e proprio problema di scarsa militanza rispetto alla forte proliferazione di associazioni antiracket. Spesso alcune attività si costituiscono per la cosiddetta “gloria delle medagliette” più che per fare attività antimafia, come denuncia la stessa Palidda.

Occorre sopratutto un continuo monitoraggio delle stesse associazioni affinché le stesse non approfittino della loro posizione solo per acquisire visibilità.

Grazie all’attività delle associazioni antiracket attive sul territorio si ha la percezione che il tessuto mafioso oggi si stia sempre più sgretolando tanto che la criminalità organizzata sta limitando le azioni di violenza pubblica a discapito però di una deviazione verso una diversa strada che è quella del recupero credito e dell’usura, finalizzando tali attività a forme meno violente ma più sottili e subdole.

Tali argomenti sono appunto trattati nel volume “Storia del movimento antiracket 1990-2015” di Filippo Conticello, che è il quarto volume della collana Arcipelago di 10 volumi (sull’estorsione effettuata sul territorio nazionale e perpetrata in questi 25 anni), promossa da Pippo Scandurra, Presidente Nazionale Fai.

Questo volume tratta le esperienze di alcuni imprenditori che hanno rifiutato il racket.

Pippo Scandurra ricorda Mario Caniglia, uno dei primi imprenditori che già nell’ ’84 ebbero il coraggio di denunciare il racket. Caniglia denunciò, e gli fu chiesto, dalle forze dell’ordine, di cambiare città, ma si rifiutò con forza, impegnandosi energicamente nella denuncia dei propri estorsori.

Questa storia, come tante altre, costituisce il seme di quella che è la nascita delle associazioni antiracket, perché è proprio grazie al coraggio di uomini come il Caniglia che le autorità possono operare sul territorio garantendo la salvaguardia delle vittime del racket.

Essendo il Presidente Nazionale Fai, Pippo Scandurra sa bene che la strada è ancora lunga e che la cattiva gestione di alcune associazioni, che talvolta si atrofizzano davanti alle problematiche del denunciante, non può e non deve rovinare l’onesto lavoro di chi si impegna costantemente e seriamente nella lotta alla criminalità organizzata.

E’ chiaro che quando si ha a che fare con tanti soldi il confine tra l’onesta e la malafede è labile, ma sono proprio queste organizzazioni che permettono alle Forze dell’Ordine di poter agire legalmente sapendo di essere supportati, nel recupero del denunciante, dalle suddette organizzazioni.

Ma quali sono i rischi a cui va in contro un imprenditore che decide di denunciare, e come attua la sua politica di minaccia la criminalità organizzata?

Risponde a tele domanda, Salvatore Tognolosi, vice questore che rivela come le modalità siano svariate: dalla cosiddetta “messa a posto” attraverso cui l’estorsore richiede una percentuale alla vittima, alla “guarderia” che prevede una sorta di guardiano a “tutela” del bene, (in genere di settori agricoli), all’imposizione di un determinato prodotto, come un certo tipo calcestruzzo in ambito edile, al “cavallo di ritorno”, tecnica che prevede la sottrazione di beni, come ad esempio capi di bestiame, col conseguente impoverimento dell’attività stessa, seguito dalla richiesta di riscatto. Ad ogni modo, sostiene il vice questore, nonostante le pratiche effettuate dal racket siano varie e minino la sicurezza economica ed emotiva, della vittima, oggi si rende necessaria una strategia di interazione tra le Forze dell’Ordine e le associazioni antiracket, ma ancora più importante è la necessità di denunciare questi fatti, episodio che da il via al dispiegamento di tutte quelle forze che operano per ristabilire la legalità.

Altro esempio nobile di denuncia è il caso dell’imprenditore Giovanni Castorina, che denunciò i suoi estorsori nell’ 84 e fu costretto a cedere la propria attività agli esorsori, sotto minaccia.

Presente all’incontro il figlio di Castorina che lamenta la mancanza di coraggio degli imprenditori di oggi rispetto a ciò che riuscì a fare il padre denunciando il racket in un periodo in cui, ancora di fatto, non esisteva neanche una legge che tutelasse le vittime di racket.

Quando si parla di racket non bisogna pensare che sia una parte secondaria all’interno di Cosa Nostra anzi è un elemento essenziale.

Proprio per questo motive è importante citare, come fa Filippo Conticello nel suo intervento, il caso di Capo d’Orlando, piccola cittadina della provincia di Messina conosciuta per lo più per le sue spiagge, che nel 1990, vide un piccolo numero di commercianti dar vita ad un’esperienza inedita di lotta al racket mafioso. Sarino Damiano, Tano Grasso, Francesco Signorino e altri piccoli commercianti poco più che trentenni si unirono per formare la prima associazione antiracket in Italia.

L’idea vincente dei commercianti orlandini, che non ha precedenti, fu quella di associarsi per sottrarre l’imprenditore sottomesso al racket a quella condizione di solitudine e di isolamento che costituisce il punto di maggiore debolezza per la vittima e di maggiore forza per il mafioso.

Questo fu il primo passo verso la costituzione di associazioni antiracket ed il loro caso servì proprio per dare coraggio a tutti quegli imprenditori che successivamente subirono le minacce da parte dei clan mafiosi.

Altra esperienza fu certamente quella di Liborio Grassi, di cui Conticello parla nel suo libro, poiché si ritrovò a denunciare da solo e morì, vittima della mafia. Queste due esperienze, messe a confronto, devono servire a far capire che la lotta alla mafia non può essere portata avanti dall’individuo ma che c’è la necessità di costituire associazioni che aiutino la vittima a portare a termine la denuncia.

Un altro caso importante è quello di qualche mese fa Bagheria dove un cospicuo numero di denuncianti ha portato all’arresto di un folto numero di malviventi. La riflessione che fa Conticello sul caso è la seguente: “E’ il cazzotto più grande che si può dare alla criminalità organizzata. Se la stessa operazione fosse stata fatta sulla base di testimonianze di pentiti non avrebbe avuto la stessa forza!”.

Il fatto stesso che Confindustria abbia detto, più volte e pubblicamente, che pagare il pizzo è un disonore, la dice lunga su come le cose stiano radicalmente cambiando.

Lo sa bene anche Gabriella Guerini, presidentessa dell’As.a.a.e, che raccontando la sua esperienza personale di estorsione subita, e perpetrata anche nei confronti del padre, quasi si commuove. Ma nonostante la perdita del padre per opera della mafia la sua determinazione è incrollabile ed il messaggio che dona, all’esiguo pubblico dell’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, è quello di denunciare e di rimanere sempre dalla parte della legalità perché il suo impegno, come presidentessa di un’associazione antiracket, è un percorso di aiuto continuo e costante alle vittime di estorsione.

Così come si aggiungono all’accorato messaggio Mauro Mangano, Coordinatore Regionale Fai, e Franco Nicotra imprenditore e dirigente del Fai antiracket.

Mangano rivendica fortemente la professionalità di un’associazione, quale la Fai antiracket, che ha saputo trovare gli strumenti per poter essere considerata quello che è oggi, fungendo da apripista per tutte le altre associazioni.

Conclude la conferenza Nazareno Prinzivalli membro dell’Associazione Antiracket di Catania, intervenuto al posto di Walter Ansorge, Presidente Fai Catania, che ringrazia tutti i presenti sottolineando come sia importante dare visibilità a situazioni come quella proposta poichè un maggiore visibilità garantirà la possibilità di ridurre i casi di sottomissione alla criminalità organizzata.

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