La “Lampaduza” di Davide Camarrone

Il giornalista e scrittore, ospite di “Etna in giallo”, dialoga a proposito del diario-reportage e dei propri romanzi gialli

Alle pendici dell’Etna torna a Nicolosi “Etna in giallo”, eterogenea rassegna letteraria ideata e diretta da Salvo Fallica e ormai giunta alla quinta edizione. L’evento, dopo una lunga e scrupolosa organizzazione, si conferma una pregevole iniziativa, capace di fondere armonicamente libri dei più diversi generi letterari come chiave di lettura del presente e dei principali fatti di attualità. Una valida occasione per l’incontro tra autori e lettori, proponendosi come espediente per raccontare storie, vite e problematizzare la realtà della nostra quotidianità. Chiacchierate estive che fungano come opportunità di approfondimento relativamente a tematiche che riguardano il tempo in cui trascorriamo la nostra esistenza.

Numerosi gli appuntamenti e incontri in programma che andranno a movimentare la stagione estiva, spesso monotona e culturalmente poco stimolante. Il primo grande evento ha visto protagonista il giornalista e scrittore Davide Camarrone, con “Letteratura, giallo e migranti. La Sicilia, terra di cultura e porta del Mediterraneo”. “Questo è un uomo”, i gialli “Lorenza e il Commissario” e “L’ultima indagine del Commissario” sono solo alcune delle opere di successo di Camarrone. L’autore, nel corso della frizzante serata, ha dialogato con la platea a proposito dell’esperienza lavorativa e personale da cui nasce “Lampaduza”, ibrido tra diario e reportage, frutto di un’inchiesta giornalistica sugli sbarchi dei migranti sull’isola.

Lampedusa, porta dell’Europa e caposaldo da cui passa una delle principali direttrici dei flussi migratori africani. Camarrone ritrae a tinte vivide la realtà, i sogni, le speranze e lo sconforto sul volto di coloro che fuggono dal proprio Paese alla ricerca di un mondo migliore. E lo fa senza il minimo accenno di retorica. Il libro nasce dall’impossibilità, da parte dell’autore, di raccontare, se non in forma scritta, le esperienze e gli incontri vissuti. E, allo stesso tempo, dall’impossibilità di attenersi esclusivamente alla cronaca giornalistica, “insufficiente” per far comprendere l’entità e la drammaticità del fenomeno. Una scrittura liberatoria, a testimonianza dell’espressione sul volto dei profughi che scendono la passerella, quella sul volto dei bambini.

Memorie di racconti da parte di sopravvissuti: alle guerre, alle fame che hanno conosciuto, al viaggio attraverso il deserto, la contenzione nei campi, nelle farm. Infine, il fiducioso affidamento al beneplacito delle acque. Tanti, troppi i morti ripescati dai flutti del mare. Vittime anche dell’insipienza della politica, di un degrado morale e culturale. “Ho scritto di quando arrivano” – commenta Camarrone – “adesso servirebbe un libro che racconti cosa succede dopo”. Tanti gli spunti di riflessione emersi, partendo proprio da quell’isola lasciata sola ad affrontare un’emergenza umanitaria, ormai vera e propria problematica globale. Interpretare gli eventi che influenzano la geopolitica del Mediterraneo per comprendere l’orrore di quanto sta accadendo recentemente, con i saluti romani e il lancio di bottiglie contro i pullman che trasportano i migranti. Manifestazioni di xenofobia e razzismo, echi di ricordi antichi, ma non troppo.

Siamo noi a mascherarci dietro le ipocrisie dei cosiddetti “centri di accoglienza”, denominazione sicuramente meno truce di quella ufficiale: “centri di identificazione ed espulsione”. Camarrone racconta la storia del dramma di uomini condannati a vivere con i fantasmi di ciò che hanno vissuto, impossibilitati a cancellarne il ricordo e il senso di colpa per essere sopravvissuti ad altri. Il loro futuro in mano agli scafisti e alle organizzazioni criminali, titolari di un vero e proprio business e soli garanti del loro arrivo in Europa. La stessa Europa che, pur consapevole della tragicità della situazione, oggi sbatte loro la porta in faccia. L’immigrazione: un fenomeno che, da siciliani, ci interessa direttamente, ma di fronte al quale ci mostriamo spesso indifferenti e noncuranti, se non addirittura insofferenti. Ci dimostriamo incoerenti con la nostra stessa storia di migranti. Storia di flussi migratori che oggi, ciclicamente, torna a ripetersi. Così come i nostri giovani, per primi, immaginano oggi il loro futuro lontano dal nostro Sud e dal nostro Paese.

 

– Giornalista e scrittore, sensibilmente attento alla situazione degli sbarchi dei migranti. Come ha raccontato la tragica realtà che ha avuto modo di toccare con mano?

Lampaduza è un reportage, quindi la narrazione di una realtà. Ma utilizza un linguaggio letterario in quanto il libro merita una differente considerazione rispetto al linguaggio che normalmente utilizzo da giornalista. Non vi è alcuna sovrapposizione tra i due stili di scrittura. Quella giornalistica è lontana, distinta da quella letteraria per svariate ragioni. Evidentemente, però, quello che vedo da giornalista ha un suo peso e l’importanza della letteratura in questo caso assolve al bisogno di dare dignità a quanto normalmente non viene narrato. Il mezzo giornalistico consente una narrazione estremamente parziale di ciò a cui assistiamo. Tutto ciò che riguarda le emozioni, l’indicibile, il privato: percezioni che non possono essere raccontate e che forse non interessano. Mi riferisco a una condizione generale che ha determinato in Italia, e in maniera più preponderante negli Stati Uniti, la nascita di una forma letteraria a se stante, che oggi torna ad avere un ruolo di primo piano, capace di contaminare la letteratura in senso proprio. Il “narrative journalism” adotta chiavi eccentriche incompatibili con il giornalismo tradizionale”.

 

– Un genere di narrativa che risente dell’esperienza personale e dell’attenzione per la realtà…

Tutto ciò a cui ho assistito personalmente, quanto ho letto e quanto conosco a proposito della realtà relativa ai migranti è andato a confluire, filtrato dalla mia esperienza, in “Lampaduza”. Ha costituito un banco di prova importante, un test di scrittura. Mentre trascrivevo le mie esperienze e le trasponevo in forma di narrazione, ero inconsapevole di cosa stessi facendo. Esperienze su carta che, in fase di rilettura, ho limato o arricchito. E’ stato un lavoro non solo tecnicamente complesso ma anche emotivamente partecipato, in quanto direttamente coinvolto. E’ un racconto nel quale convergono necessità di spiegare, soprattutto a me stesso, cosa sta accadendo. Attraverso la vicenda delle migrazioni, un grande processo che ci coinvolge tutti, si può anche guardare al mondo intero che sta cambiando. Il libro presenta il piano dell’esperienza personale, quello letterario e, infine, quello di comprensione e interpretazione della realtà. “Lampaduza” è il tentativo, imperfetto, di conciliari questi tre aspetti”.

– Come ci si muove all’interno del romanzo giallo?

Sinceramente non penso di essere un giallista. I miei sono tentativi di giallo, di distorsione di una macchina le cui regole sono state codificate nel tempo e da diversi autori. Il giallo tuttavia è uno strumento utile a comprendere la realtà con uno sguardo critico. Particolarmente significativa la lezione di Leonardo Sciascia che parlava di un “divertissement razionale e illuministico”. D’altro canto, il giallo è uno strumento elastico, può essere piegato e le sue regole infrante. Regole che hanno a che fare con l’esposizione, il posizionamento del crimine, del suo autore, dei tradimenti di quest’ultimo e dell’agnizione del medesimo. Tutte queste regole possono essere, sebbene con estrema fatica, distorte. Anche in questo caso si è trattato di una sfida, permettendomi di mettere insieme diverse sollecitazioni letterarie. Il giallo non è un genere secondario, ma equivalente ad altri. Bisogna sempre tener conto del godimento del lettore; se annoia è fallimentare. E’ richiesta padronanza tecnica per aprire, metaforicamente parlando, una finestra dove tutti sostengono sia impossibile farlo o per abbattere una parete considerata fondante perché la struttura non crolli. L’architettura illuministica del giallo può essere piegata alle esigenze della narrazione. E’ piuttosto faticoso e per questo mi reputo abbastanza fallimentare nel mio tentativo di costruzione di un giallo”.

 

– Cosa ci riserverà prossimamente? Progetti in cantiere?

Ho scritto il prequel del Commissario Garbo. E poi sto scrivendo un testo provocatorio sulla fine del giornalismo. Oramai a raccontare e far conoscere la realtà si fa prima con strumenti agili come i social network, i blog o almeno quel che rimane di questi… Ciò non significa che non ci siano più luoghi dove riflettere sulla realtà ma forse bisogna tener conto maggiormente della analisi e della condivisione della stessa. Credo che queste siano le due parole chiave del “new journalism”. Infine, ho in cantiere altri progetti di scrittura che hanno ancora a che fare con il tema dell’immigrazione”.

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