La Bohème di Leoncavallo in concerto al Bellini, una eccezionalità gradevole e gradita

Riscontro ampio di pubblico e notevole apprezzamento per l’opera di rara
esecuzione, diretta dal Maestro Carminati 

Abbiamo dovuto attendere oltre cento anni (l’ultima rappresentazione in Sicilia fu a
Palermo nel 1913, coll’altro titolo di Mimì Pinson) per riascoltare, seppure in forma
concertata, la cosiddetta “altra Bohème”. Poiché è noto -almeno agli appassionati
del settore- che le opere liriche con questo nome sono due; una celeberrima di
Giacomo Puccini, tra le più rappresentate al mondo dal suo esordio nel 1896, e
l’altra del famoso ma non celebratissimo compositore Ruggero Leoncavallo, scritta
quasi contemporaneamente all’eminente toscano e data a Venezia alla Fenice il 6
maggio 1897, poco più di un anno dopo l’opera “rivale”. Conosciamo Leoncavallo
per “I Pagliacci” ma anche in quel caso il compositore napoletano -con un lungo
vissuto in Calabria, a Montalto Uffugo ove ancora lo onorano- si caratterizza per
la realtà che tale opera nasce in seguito a “Cavalleria rusticana” del Mascagni;
siamo nella prima decade degli anni Novanta dell’Ottocento, il famoso “secolo coi
baffi” (e il nostro li aveva ben folti oltre ad essere di corporatura paffutella). La
genialità del’editore e giornalista, uomo libero ed illuminato (a lui dobbiamo gli Asili
Notturni di Milano, come quelli di Torino che ancora vivono oggi) Edoardo
Sonzogno, fece sì che tali opere leoncavalliane, fossero spinte a percorrere la via
del successo, ma non della gloria, almeno per Bohème: infatti dopo l’esordio,
furono inevitabili i paragoni col genio pucciniano e l’opera pian piano venne
accantonata. Non può imputasi prettamente al pubblico l’origine di tale
orientamento: fu Gustav Mahler in persona -che pure la fece rappresentare a
Vienna- che ne parlò e ne scrisse talmente male da farla morire quasi sul nascere:
“una sola nota di Puccini vale tutta la Bohème di Leoncavallo!”. Eppure il figlio del
magistrato nato a Chiaia e diplomatosi a San Pietro a Majella, aveva còlto altri
successi: non secondaria è l’opera Zazà, che rappresenta il cafe chantant allora
molto in voga, da cui nel 1944 si girò un film con la celebre Isa Miranda: poi il
sommo Totò ne parodiò il personaggio al maschile (il barone Zazà che vive una
vita scapestrata tra i caffè concerto) nel film del 1960, “Signori si nasce”. Tale
opera fu nel 1995 data a Palermo da Gianandrea Gavazzeni, come ha voluto
ricordare l’attento Marco Impallomeni, e il Maestro Carminati la ha diretta nell’anno
duemila. Ma Leoncavallo moriva nel 1919 a Montecatini Terme a sessantadue
anni, diabetico e pieno di debiti. Lasciando però tracce della sua freschezza e
facilità di musicista e compositore ineguagliabili: incise personalmente suonando il
piano la notissima romanza “Mattinata” nel 1904 con la voce di Enrico Caruso: le
nostre nonne hanno sovente ricevuto la loro prima dichiarazione d’amore
attraverso tale melodia.


Per cui è stata davvero indovinata l’operazione che il teatro Bellini, col
Sovrintendente Giovanni Cultrera di Montesano e il direttore artistico Maestro
Fabrizio Maria Cartminati, ha scelto di mettere in scena immediatamente dopo ilgrande successo della Bohème pucciniana, ovvero dare la possibiltà al pubblico di
conoscere anche l’opera di Leoncavallo. Riscontro abbondante con la cospicua
presenza di spettatori domenica 11 dicembre (lo spettacolo verrà replicato il 13
sera) il quale ha mostrato, dopo una iniziale titubanza probabilmente dovuta alla
forma concertata, in assenza di scene, di gradire molto i quattro atti dell’opera che
più si avvicina al romanzo di Murger. La presentazione del noto critico musicale
professore Giuseppe Montemagno, che unitamente alla collega responsabile
stampa del teatro Caterina Andò, ha tratteggiato brevemente ad uso dei presenti,
la trama dell’opera, ha reso più facile lo scorrimento della stessa. Diciamo subito
che mentre l’orchestra, diretta da Carminati con la consueta maestrìa, ha fornito
un ampio riscontro delle proprie possibilità data anche la partitura piuttosto di
respiro e a tratti ampollosa (Leoncavallo fu sempre wagneriano) la sicura
direzione del Maestro ha fatto si che non si scantonasse nel “bandismo”. Mentre
nel secondo atto la presenza massiccia dell’intero Coro del teatro, istruito da Luigi
Petrozziello, ha splendidamente impreziosito la scena in particolare nelle pagine
del coinvolgimento dei protagonisti -che in questo caso sono Marcello e Musette
invece che Rodolfo e Mimì– allorchè si esalta la vita da bohemièn.


Giungendo ai cantanti, il mezzosoprano Elena Belfiore, dalle fattezze suadenti, fu
una splendida Musette, molto apprezzata e più volte applaudita, mentre il tenore
Gaston Rivero ebbe una perfetta riescita nei panni di Marcello, così il baritono
Luca Bruno in Rodolfo; il soprano Selene Zanetti si segnalò per la chiarezza
vocale e il timbro squillante negli acuti, che caratterizzano Mimì. Apprezzati
Domenico Balzani (Shaunard), Roberto Lorenzi (Colline) Saverio Pugliese
(Gaudenzio) e gli altri. Un pomeriggio che poteva ad onta della assenza di
movimento -pur se gli artisti supplirono con le loro modanature vocali- rivelarsi non
brillante, si manifestò invece di buon respiro, soprattutto per la curiosità di
conoscere questa opera dimenticata, che è giusto i teatri rimettano in scena per lo
meno nel rispetto della filologia degli autori “veristi” di quel tempo. Per quanto
riguarda la cronaca mondana, la stagione sinfonica si distingue da quella lirica nel
pubblico non solo per la rilassatezza dell’abbigliamento (solo quattro signori
compreso chi scrive scelsero la cravatta a farfalla, pochi altri la tradizionale, le
signore vestite come per gli acquisti in via Umberto, tranne qualche gentile
donzella dallo stile curato) ma anche per la maggiore impazienza: gli artisti
meritavano ben più dei cinque o sei minuti di applausi, ma già al terzo la gran
parte dei terzi (di età) erano scattati via per i motivi più vari ed intuibili.

Garbata e inappuntabile la coppia Giovanni Cultrera e signora Lisa, attivissimo come sempre il fotografo Giacomo Orlando. Presente la Real Casa d’Epiro Delegazione di Sicilia e Malta e la Legione Garibaldina Comando per la Sicilia. Sempre gentilissime le
signorine “maschere” (come appellavasi un tempo) di sala coordinate da Andrea
Sciavarrello e positivo il funzionamento della guardaroba, dalla utilità indiscussa.
La realtà sulla tenzone che portò alle due Boheme non la sapremo forse mai: per
noi siciliani basti rammentare che Puccini venne financo a Catania nel 1894 a
casa di Giovanni Verga (il Cavaliere e Senatore del Regno si muoveva ormai di
rado ma attendeva sempre con ansia alla stazione la Contessa di Sordevolo)
poichè aveva in mente di musicare “la lupa”; nel viaggio di ritorno incontrò in nave
una delle donne allora più affascinanti e celebri, la Contessa Blandine Gravina,nipote di Franz Lizst e figlia di Cosima maritata a Riccardo Wagner. L’elegante
Giacomo si mise a corteggiarla intonando al pianoforte di bordo il “Tannhauser” e
nel narrare il motivo della visita in Sicilia, svelò alla Contessa i suoi propositi,
allorché ella lo fulminò dicendogli: “Non musicate la lupa! Vi potrebbe giungere la
malasorte!” inducendolo altresì a completare il progetto di Boheme, che il
Leoncavallo poi sostenne essere sua primigenia idea. L’accenno, come ci faceva
notare il Maestro Carminati (il libretto di Boheme è pure di Ruggero) “questo Re è
falso” è volutamente una criptata critica a Puccini che in ogni caso ebbe la via del
successo spianata. Il contenuto dell’opera leoncavalliana come testo non è da
buttare come sosteneva il freddo Mahler: anzi diede la stura -come quello
pucciniano- a tutto uno stuolo di personaggi femminili, dalla fioraja di Chaplin (in
Luci della città: pur se il grande genio non lo poteva mai ammettere, lui che nella
autobiografia non nomina neanche il collega e amico Stan Laurel, il Maestro della
comicità da cui pure attinse) alle Lilì Kangy del primo dopoguerra, alle vedètte del
bal tabarin alle “sciantòse” che mandavano in visibilio tronfi industriali sessantenni
con le pancette , ovviamente commendatori, attori in carriera (il Principe de Curtis
impazzi per Liliana Castagnola, ma finì in tragedia) nonché aitanti operai , mentre
le ballerine di Macario si concedevano ai gagà di provincia (sempre che essi
avessero, e spesso non le avevano, le famose banconote “a lenzuolo” da mille
lire). Insomma l’eterno secondo, come potremmo denominare Leoncavallo
nell’olimpo della lirica internazionale (riecheggiando una metafora del ciclismo dei
tempi andati, quando erano così appellati Fiorenzo Magni e Giordano Kottur) è
stato forse l’ultimo cantore della fine dell’amor romantico. Altri tempi: chi sa oggi
cogliere le emozioni? Esistono esse ancora? Frànte, come sussurrò Ungaretti?
Dove è finita l’ebbrezza che assale se si guarda la fanciulla che intona Malia o
Vorrei? Non sappiamo. Nel dubbio è la ricerca, negli occhi ceruli di tramonto
come nella favola d’Oriente.
Marcello infatti dice a Musette: “la nostra rosa è morta” e all’amico: “Tu cerchi il
fuoco in un mondo di cenere”: quando la freddezza del cuore diviene granito, nulla
vi è più da fare ma chi soffre, è colei o colui che compie questa scelta perché sa
che ne avrà rimorso, per sempre. Chi invece rimane in cerca dell’amore coltiva la
speranza , ma distaccato: Carlo Dapporto ne fece un raffinatissimo cameo ne “Il
maliardo”. Se ne accorse nel 1972 e ne incise un disco di grande successo,
l’unico suo da cantante, il celebre attore comico palermitano Franco Franchi, con
la canzone “L’ultimo dei belli”: “Romantico sofferto e raffinato, le femmine mi
trovan demode, mi critican le ghette e il guanto bianco, mi escludono le danze col
casché… addio romanticismo che te ne vai, oggi non è di moda sapere amar!”

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