Agenzia delle Entrate. Giudici tributari superficiali: decidono senza vedere le carte

Con la confusione fiscale ai massimi storici, si moltiplicano le sentenze a sorpresa, con i cittadini che, anziché ottenere giustizia, subiscono ingiustizie inaccettabili e incomprensibili.

Francofonte, 20 gennaio 2024. Il cittadino si rivolge ai giudici tributari per ottenere giustizia, ma, in alcuni casi, i giudici moltiplicano le ingiustizie subite, con le cosiddette sentenze a sorpresa. Ed è quello che è successo ad un contribuente che esercita l’attività di panificatore in provincia di Messina, nel Comune di Caronia, che conta circa 3mila abitanti. I giudici di secondo grado della Sicilia, sezione staccata di Messina, hanno emesso due sentenze senza avere letto i documenti regolarmente allegati al fascicolo del contenzioso e, quindi, presenti nel sistema informativo della giustizia tributaria (SIGIT). Per capire la paradossale vicenda, è bene raccontare i fatti.

I due accertamenti per gli anni 2009 e 2010

A seguito di una indagine finanziaria, cosiddetto controllo bancario, l’agenzia delle Entrate, direzione provinciale di Messina, emette, a fine anno 2013, due accertamenti per gli anni 2009 e 2010, contestando presunti ricavi omessi di 189.731,00 euro, per l’anno 2009, e di 214.570,74 euro, per l’anno 2010. Prima della sentenza di primo grado, l’ufficio, con un’autotutela del 19 settembre 2014, ridetermina i maggiori ricavi, riducendoli a 144.337,07 euro, per il 2009 e a 137.972,60 euro, per il 2010, in totale 282.309,67 euro, in palese contrasto con la realtà, ma, soprattutto, senza alcuna prova. Probabilmente, il funzionario che ha eseguito il controllo bancario non si è reso conto dei numeri assurdi e inverosimili che scaturivano. La sensazione è che, con l’ingresso dell’euro, si sia perso il senso della misura, non riuscendo a capire in pieno la differenza tra la nuova moneta e la vecchia lira. Capita infatti che si “scoprono” inesistenti evasioni di centinaia di migliaia di euro, senza pensare che, ad esempio, 300mila euro non sono 300 mila lire, ma circa 600milioni delle vecchie lire.

Le sentenze dei giudici di primo grado

I giudici di primo grado di Messina, con due sentenze depositate il 12 aprile 2016, confermano pienamente l’operato dell’ufficio con l’autotutela del 19 settembre 2014, determinando in 144.337,07 euro i maggiori ricavi relativi all’anno 2009 e 137.972,60 euro i maggiori ricavi relativi al 2010. Contro le sentenze dei giudici di primo grado, il contribuente presenta i ricorsi in appello.

Le conciliazioni proposte dall’ufficio

Per evitare il lungo e defatigante contenzioso con le incertezze che ne derivano, e scongiurare di proseguire la lite fino alla Cassazione, intendendo definire le due liti, il contribuente ha presentato più volte proposte di conciliazione, ma l’ufficio, all’ultimo minuto, ha inviato il 29 settembre 2023, appena un giorno prima della scadenza ordinaria del 30 settembre, due proposte di conciliazione, una per l’anno 2009 e l’altra per il 2010. Le proposte dell’ufficio, a norma della legge di bilancio per il 2023, articolo 1 e unico della legge 29 dicembre 2022, n. 197, ai commi da 206 a 211, prevedevano una conciliazione agevolata delle controversie tributarie pendenti al primo gennaio 2023, davanti alle corti di giustizia tributaria di primo e di secondo grado aventi ad oggetto atti impositivi, in cui era parte l’agenzia delle Entrate. Le proposte di conciliazione potevano essere definite, entro il 2 ottobre 2023, in quanto il 30 settembre, di scadenza, era sabato e il primo ottobre era domenica, pagando le imposte concordate, le sanzioni ridotte a un diciottesimo del minimo previsto dalla legge, gli interessi e gli eventuali accessori.

L’errore dell’ufficio nel determinare la percentuale di incidenza dei costi

Nelle proposte di conciliazione inviate il 29 settembre 2023, purtroppo, l’ufficio ha determinato erroneamente la percentuale di costi deducibili, riconoscendo soltanto una percentuale forfetaria per “acquisti di materie prime”, quando, invece, per principi consolidati della Cassazione e della Corte Costituzionale, in caso di indagini finanziarie, <<a fronte dei maggiori ricavi accertati … occorre sempre riconoscere una quota forfetaria di costi>>.
Peraltro, come riportato dallo stesso ufficio, in entrambe le proposte di conciliazione, <<In materia di accertamenti su indagini finanziarie si evidenzia la sentenza della Corte di Cassazione 23 febbraio 2023 n. 5586 che riprendendo la sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 31 gennaio 2023 ha applicato il principio che ammette il riconoscimento di maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi accertati ed in particolare che occorre sempre riconoscere una quota forfetaria di costi, senza che il contribuente debba fornire una prova analitica>>. Nella richiamata sentenza della Cassazione, n. 5586 del 23 febbraio 2023, si legge infatti che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato <<il principio … secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione>> cioè di tutti i componenti negativi e non solo delle materie prime, <<determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi>>.

Il giusto calcolo dell’incidenza dei costi

L’errore commesso dall’ufficio è di avere considerato “solo” l’incidenza dell’acquisto delle materie prime, invece di considerare l’incidenza percentuale di tutti i componenti negativi, come recentemente confermato e ribadito più volte dalla Corte costituzionale e dai supremi giudici. E’ bene sottolineare che il principio che ammette il riconoscimento di maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi accertati, costituisce un nuovo orientamento giurisprudenziale cui va riconosciuto il carattere di ius superveniens, cioè di diritto sopravvenuto favorevole al contribuente. Sia nella proposta di conciliazione per il 2009, sia nella proposta di conciliazione per l’anno 2010, inviate per posta elettronica certificata al contribuente, l’ufficio, dopo avere scritto <<del nuovo orientamento giurisprudenziale>>, peraltro affermato e consolidatosi nel corso del 2023, <<propone di riconoscere una percentuale di maggiori costi per gli anni di imposta>> 2009 e 2010 <<riferibile ai maggiori ricavi accertati>>. Successivamente, però, l’ufficio, invece di <<riconoscere una percentuale di maggiori costi>>, si limita a riconoscere soltanto una percentuale relativa agli acquisti di materie prime e sussidiarie. E’ evidente che, così operando, l’ufficio non rispetta quanto stabilito dalla Corte costituzionale, nella sentenza n.10 del 31 gennaio 2023, che, in caso di accertamento analitico induttivo fondato sulla presunzione di ricavi non dichiarati, occorre sempre tenere conto dell’incidenza percentuale dei relativi costi (e non solo delle materie prime) che vanno dedotti dai maggiori ricavi accertati.

Le proposte del contribuente

Il 30 settembre 2023 è stato chiesto all’ufficio di applicare correttamente il principio richiamato dallo stesso ufficio nelle due proposte di conciliazione: <<In materia di accertamenti su indagini finanziarie si evidenzia la sentenza della Corte di Cassazione 23 febbraio 2023 n.5586 che riprendendo la sentenza della Corte Costituzionale n.10 del 31 gennaio 2023 ha applicato il principio che ammette il riconoscimento di maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi accertati ed in particolare che occorre sempre riconoscere una quota forfetaria di costi, senza che il contribuente debba fornire una prova analitica>>. E’ da notare che, come nel caso in esame, quando l’errore dell’ufficio è di calcolo aritmetico, la correzione non deriva da autotutela, ma da naturale inevitabilità. Purtroppo, nonostante l’evidenza matematica, l’ufficio non ha fornito alcuna risposta alle proposte di riesame delle conciliazioni per gli anni 2009 e 2010, inviate il 30 settembre 2023, cioè dopo appena un giorno dalle proposte di conciliazione (sbagliate) inviate dall’ufficio il 29 settembre 2023. 

La “parola” ai giudici tributari

Tenuto conto che, in ogni caso, non c’era più tempo per rivedere le conciliazioni, l’ufficio e il contribuente hanno deciso di attendere l’esito dei giudici di secondo grado, che, sperabilmente, recependo gli insegnamenti dei giudici di legittimità e della Corte costituzionale, avrebbero ulteriormente ridotto la pretesa impositiva, applicando correttamente il principio che ammette il riconoscimento di maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi accertati. Per agevolare i giudici di secondo grado, il difensore del contribuente aveva inviato al sistema informativo della giustizia tributaria (SIGIT), in data 9 ottobre 2023, delle memorie illustrative, chiedendo anche di fissare con urgenza la data per la trattazione degli appelli, anche perché nel frattempo il contribuente aveva avuto pignorati i beni immobili posseduti, che, pertanto, non potevano essere venduti o donati. Si noti che gli appelli erano stati depositati nel 2016 e, dopo più di sette anni, si era ancora in attesa della fissazione dell’udienza. Nelle memorie illustrative presentate sono state allegate anche le proposte di conciliazione dell’ufficio e le istanze del contribuente per il riesame delle proposte, nel rispetto dei principi espressi dai giudici di legittimità e dalla Corte costituzionale. All’udienza del 27 novembre 2023, il difensore ha ribadito quanto illustrato nelle memorie depositate il 10 ottobre 2023, mettendo in evidenza l’errore dell’ufficio che, nel determinare la riduzione dei maggiori ricavi accertati, per gli anni 2009 e 2010, aveva considerato solo la percentuale inerente gli “acquisti di materie prime”, quando, invece, per principi consolidati della Cassazione e della Corte Costituzionale, in caso di indagini finanziarie, <<a fronte dei maggiori ricavi accertati … occorre sempre riconoscere una quota forfetaria di costi>>.

Le sentenze a sorpresa dei giudici di secondo grado

Il fatto paradossale è che i giudici di secondo grado della Sicilia, sezione n. 10 staccata di Messina, con le sentenze 579/2024, per l’anno 2009, e 581/2024, per l’anno 2010, depositate il 18 gennaio 2024, hanno semplicisticamente rigettato gli appelli del contribuente, confermando quindi le sentenze di primo grado. I giudici di secondo grado hanno emesso le sentenze senza accennare alle proposte di conciliazioni fatte dall’ufficio, che aveva in parte ridotto i maggiori ricavi accertati, e senza nemmeno accennare a quanto illustrato nelle memorie presentate il 9 ottobre 2023. Le sentenze sono pertanto ingiuste, superficiali, approssimative, sbagliate nei presupposti di fatto e di diritto, oltre che carenti di motivazioni. I giudici non hanno tenuto conto in alcun modo dei fatti esposti e documentati nei ricorsi in appello, in dispregio assoluto del giusto processo. Probabilmente, considerata la complessità dell’appello e la numerosa documentazione allegata ai due appelli e già presente nel sistema informativo della giustizia tributaria (SIGIT), i giudici di secondo grado, hanno emesso due sentenze senza avere letto i documenti regolarmente allegati al fascicolo del contenzioso. Tutto ciò la dice lunga sulla superficialità, leggerezza e approssimazione con le quali alcuni giudici emettono le sentenze. Insomma, in assoluto dispregio delle norme sul giusto processo, che significa anche sperare in una giustizia ideale, i giudici di secondo grado hanno emesso due sentenze che ledono il diritto di difesa del contribuente, diritto costituzionalmente protetto. Le due sentenze, inoltre, violano il rispetto che merita qualsiasi cittadino che si rivolge ai giudici tributari nella speranza di ottenere giustizia, anziché, come nel caso in esame, moltiplicare le ingiustizie, a cominciare dagli accertamenti illegittimi e infondati, per proseguire con le sentenze dei giudici di secondo grado. La conseguenza è che il contribuente dovrà ora presentare i ricorsi in Cassazione, proseguendo un contenzioso che dura ormai da dodici anni. I ricorsi in Cassazione, probabilmente, saranno accolti sulla base dei principi enunciati dai giudici di legittimità e dalla Corte costituzionale, con rinvio delle due controversie alla Corte di giustizia tributaria della Sicilia, sezione staccata di Messina, in diversa composizione. Insomma, il contenzioso, per colpa di alcuni giudici superficiali, non finirà mai, tornerà indietro dalla Cassazione e ripartirà dal secondo grado, con i giudici che dovranno uniformarsi ai principi enunciati dai giudici di legittimità e dalla Corte costituzionale.

La certezza del diritto non esiste più

La verità è che la certezza del diritto non esiste più. E ad alimentare le incertezze ci si mette pure la Cassazione, che sempre più spesso tradisce la sua funzione nomofilattica, cioè il compito di garantire <<l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale>>. Si assiste così, con sempre maggiore frequenza, a pronunce dei Supremi Giudici tra di loro palesemente contrastanti. A subirne le conseguenze sono i cittadini. E’ certo che se diventano imprevedibili anche le sentenze della Cassazione, c’è da preoccuparsi.
Così come fa preoccupare quanto affermato scherzosamente da un esperto di diritto tributario che “dopo la Cassazione, a giudicare resta solo Dio” (Il Sole 24 – Ore del 3 ottobre 2010).

Mimma Cocciufa e Tonino MorinaEsperti fiscali del Sole 24 – Ore

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