Riportare il Belpaese nei circoli che contano della diplomazia internazionale e sviluppare una seria politica mediterranea per arginare la questione dell’immigrazione
La politica estera non deve dar retta all’improvvisazione: deve essere insensibile al colore del Governo, e dev’essere un settore in cui maggioranza e opposizione convergono amorevolmente. Per diversi decenni le cose sono filate lisce come la pioggia sull’asfalto: le direttive di Jalta non sono state quasi mai messe in discussione; il buon senso e (spesso) la CIA hanno impedito svolte che andassero in un senso opposto a quello deciso in Crimea nel 1945. Ed infine, l’alleanza con lo Zio Sam era un dato di fatto impegnativo e onorevole per il nostro paese. Poi è crollato il Muro, la Prima Repubblica è stata sepolta sotto le tangenti e lo scenario geopolitico è divenuto incerto.
Durante la legislatura 2001-2006, governo Berlusconi, la nostra politica estera è stata sufficientemente definita: forte amicizia con gli USA, distensione con la Russia, collaborazione all’insegna della Realpolitik con i governi dell’Africa mediterranea (Gheddafi e Ben Alì prima di tutto) per arginare l’immigrazione clandestina (e, siamo onesti, per consentire alla Impregilo di costruire 2.000 km di autostrada in Libia). Poi tutto è cambiato, anche l’amministrazione Berlusconi si è dovuta adattare ai diktat atlantici: Gheddafi è stato fatto fuori. Ma in compenso, complice la situazione instabile – per usare un eufemismo a noi tanto caro – in Libia, Algeria, Tunisia ed Egitto, una nuova, vera politica mediterranea oggi sembra una chimera. E quindi sono stati chiamati i “Tecnici e i Professori“: alla Farnesina è stato spedito Sua Eccellenza Giulio Maria Terzi di Sant’Agata, Ambasciatore presso il Governo degli Stati Uniti (amico intimo di Gianfranco Fini), ha incarnato le speranze di chi voleva un’Italia finalmente credibile sul panorama internazionale. Per cui via Frattini, un Consigliere di Stato, dentro Terzi, diplomatico di professione.
Ma si sa, i Tecnici, a volte, sbagliano. Senza avventurarci nemmeno troppo nella complessa vicenda dei Marò, ci basta ricordare la vicenda del riconoscimento della Palestina come Osservatore Permanente all’Assemblea delle Nazioni Unite: l’Italia si astenne, e fu la cosa peggiore che potesse fare. Presumo che il nostro Ambasciatore all’Onu qualche telefonata alla Farnesina prima del voto l’abbia fatta, e il risultato è stata la solita, troppo italiana soluzione del colpo al cerchio ed uno alla botte: non possiamo votare NO, perché “due popoli due stati” ma non possiamo votare SI perché teoricamente siamo ancora filoatlantici e amici di Tel Aviv; quindi astensione, che ricorda tanto la non belligeranza di littorica memoria.
Dopo Terzi, è arrivato il turno della Bonino, e la scelta di Letta jr. non fu infelice: a proprio agio nei consessi internazionali, la Bonino seppe coraggiosamente dire di no a Washington quando Obama ci chiese di utilizzare la Sicilia come base di partenza per la guerra in Siria. Fortunatamente non se ne fece niente, perché forse Assad non è tanto peggio di quei tagliagole dei ribelli. Con Renzi a Palazzo Chigi, nella stanza dei bottoni della Farnesina è arrivata Federica Mogherini, l’inesperta. E in effetti la sfida è gigantesca: riportare il Belpaese nei circoli che contano della diplomazia internazionale e soprattutto sviluppare una seria politica mediterranea per arginare la questione dell’immigrazione. E che dire delle nostre imprese all’estero – Eni e Finmeccanica in testa – che hanno un ruolo fondamentale per la nostra politica estera. Ma le tante, troppe inchieste degli ultimi tre anni sulle presunte tangenti pagate ai Governi stranieri (Algeria, Panama, Nigeria, sembra anche l’India) per ottenere commesse strategiche, pare che stiano sortendo il loro effetto: quello di favorire la concorrenza.
E infine, ultimo ma non ultimo, la politica Europea, il gioco della spartizione delle cariche comunitarie (il Manuale Cencelli è best seller anche a Bruxelles, a quanto pare). La designazione dell’Alto Rappresentante della Politica Estera è toccata al PSE e la nostra Ministra degli Esteri sembra in pole position, ma che però non piace al blocco orientale dell’Unione perché ritenuta troppo amica di Putin. A conti fatti, il ruolo internazionale dell’Unione Europea che dovrà dimostrare di sapersi emancipare da Washington – che sarà pure un paese amico, ma le microspie nelle Cancellerie europee le mette comunque – è una sfida persa in partenza. E lo è perché l’Europa si porta dietro un peccato capitale che la farà fuori, prima o poi: come si pretende di avere un’unica voce se l’Europa è ancora ben lontana dall’essere uno Stato federale? Esiste un servizio diplomatico dell’Unione, guidato proprio dall’Alto Rappresentante, ma i singoli stati continuano ad avere una loro rete diplomatica.
Con l’entrata in vigore dell’Euro, le varie monete europee sono scomparse. Oggi, allo stato attuale, pretendere che ci sia una vera politica estera dell’Unione, è come pretendere di usare l’Euro ma anche la Lira, il Marco e il Franco. E poi, ed è questa la domanda che più mi assilla: se la Mogherini dovesse andare a Bruxelles, chi occuperà il suo ufficio agli Affari Esteri? Il sottoscritto teme di sapere la risposta, ma dato che è troppo scaramantico, preferisce tenerla per sé.