In scena al Teatro Musco di Catania, “Storia di una Capinera” di Giovanni Verga

Ieri, 22 maggio alle ore 18:00, presso il Teatro Musco di Catania, ultima replica dello spettacolo “Storia di una Capinera”, opera del celebre scrittore catanese ottocentesco, Giovanni Verga.

Il capolavoro verghiano è stato diretto e adattato da Rosario Minardi e interpretato da Nadia De Luca, nel ruolo di Maria, e da Giuseppe Castiglia, nel ruolo del narratore, ossìa Giovanni Verga. Gli altri protagonisti in scena: Luana Toscano, Rosario Marco Amato, Santo Santonocito, Giovanni Arezzo, Verdiana Barbagallo, Elisa Franco, Alice Ferlito, Raniela Ragonese, Alessandra Falci, Federica Breci, Roberta Rivolo, Maria Chiara Pappalardo, Rebecca Testaì e Ruggero Rizzuti.

“Storia di una Capinera” è uno dei romanzi epistolari più conosciuti di Verga ed è stato scritto durante il suo soggiorno a Firenze nel 1869. Esso prende spunto dalla vita dello scrittore in età giovanile ed è ambientato nella Catania del 1854-1855, quando vi fu l’epidemia di colera.

La protagonista è Maria, una ragazza rimasta orfana di madre già da bambina e rinchiusa in un convento di Catania, dalla matrigna, alla tenera età di sette anni. La sua vocazione le venne inculcata per motivi di natura economica. A causa dell’epidemia, Maria potette ritornare a casa e vivere con il padre e i suoi fratellastri Gigi e Giuditta a Monte Ilice. Da lì, iniziò uno scambio epistolare con la sua migliore amica Marianna, una suora laica.

Visse momenti di serenità con la sua famiglia, ma ciò non si potette dire della severa matrigna, che non fu affatto felice di averla in famiglia, cosicché venne trattata in diverso dai figli biologici. Maria era consapevole di tornare alla vita di convento prima o poi, e questo la fece intristire molto, in quanto il suo desiderio più grande fu quello di vivere una vita spensierata come tutti i ragazzi della sua età.

Vicino la casa di Maria, viveva la famiglia Valentini, molto amica della sua e con la quale trascorse del tempo. Strinse amicizia con Annetta e Antonio, quest’ultimo chiamato da tutti Nino. Con il passare dei giorni, Nino e Maria ebbero l’occasione di conoscersi meglio ed avvicinarsi. La ragazza se ne innamorò, ma essendo per lei la prima volta, scambiò il suo sentimento per una malinconia, probabilmente causata da una malattia. Continuò a scrivere lettere alla sua confidente Marianna, grazie alla quale capì la natura del proprio disagio. Ovviamente, la sua vocazione era quella di diventare suora e di dedicarsi solo all’amore verso Dio e questi sentimenti contrastanti la spaventarono ancora di più, soprattutto quando scoprì che anche Nino provava il suo stesso sentimento, spingendola ad abbandonare la sua vecchia vita. Maria cadde in preda ad una forte depressione e la matrigna, scoprendo il motivo di tutto ciò, iniziò a temere che ella non sarebbe più tornata in convento.

Le proibì di vedere Nino e le ribadì la necessità di diventare suora. La depressione della ragazza si trasformò in una vera e propria malattia delirante, che le fece perdere il lume della ragione. Una volta finita l’epidemia, la famiglia Valentini decise di far ritorno a Catania. Nino, non potendo incontrare Maria per salutarla, le lasciò una rosa sul davanzale durante una nottata di pioggia. In seguito, ella tornò alla vita di clausura, che le provocò molta solitudine e sofferenza, facendola ammalare ogni giorno sempre di più, soprattutto quando venne a sapere che il suo amato stava per convolare a nozze con la sua sorellastra Giuditta.

Nel 1856, da novizia, divenne suora a tutti gli effetti, ma questo non riuscì a placare il suo tormento. Raccontò a Marianna di suor Agata, una suora con problemi mentali rinchiusa in una cella da quindici anni. A causa dei suoi deliri, Maria teme di poterci finire anche lei. Un giorno, scoprì che dal convento riusciva a vedere la causa dei due sposi, Nino e Giuditta e così tutti i giorni si recò sul belvedere per poterlo vedere. Il bisogno di farlo era così forte che cercò di fuggire dal convento, ma venne fermata e rinchiusa all’interno della cella di suor Agata. Maria morì 3 giorni dopo in infermeria. Il racconto si conclude con la lettera che suor Filomena scrive a Marianna, a seguito della quale le vennero recapitati gli affetti personali di Maria, tra i quali alcune lettere, un crocifisso, una ciocca di capelli e dei petali della rosa che le regalò Nino.

Verga diede al suo romanzo il nome di “Storia di una Capinera” perché si ispirò alla Capinera, un uccello che dalla propria gabbia guardava gli altri uccelli liberi di volare. Maria fu proprio paragonata ad esso, alla fine rinunciò alla propria libertà e si lasciò morire.

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