Messina, “Minetti, ritratto di un artista da vecchio”

Al Vittorio Emanuele di Messina, da venerdì 20 sino a domenica 22 gennaio, andrà in scena: “Minetti, ritratto di un artista da vecchio” di Thomas  Bernhard, con Roberto Herlitzka, Roberta Sferzi, Verdiana Costanzo, Pierluigi Corallo, Vincenzo Pasquariello, Matteo Francomano. 

Minetti

Sarà in scena, da venerdì 20 sino a domenica 22 gennaio, al Teatro Vittorio Emanuele “Minetti, ritratto di un artista da vecchio” di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, Roberta Sferzi, Verdiana Costanzo, Pierluigi Corallo, Vincenzo Pasquariello, Matteo Francomano. Traduzione di Umberto Gandini, scene e luci Gianni Carluccio, costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro, suono Hubert Westkemper, aiuto regia Luca Bargagna, regia Roberto Andò, produzione “Teatro Biondo Palermo”.

Orario spettacoli: venerdì 20 e sabato 21 gennaio 2017, ore 21.00; domenica 22 gennaio 2017, ore 17.30.

Bernhard Minetti (1905-1998) è stato uno dei più grandi interpreti di teatro del Novecento. Lo scrittore Thomas Bernhard, che lo ha avuto come interprete di molti dei suoi testi, ne ha scritto uno apposta per lui, nel quale l’attore, ormai anziano e solitario, trascorre una notte di capodanno in attesa di andare in scena per l’ultima volta nel ruolo di Re Lear. In un inarrestabile flusso di coscienza, Minetti riflette sulla propria vita e sul senso del teatro, senza risparmiare giudizi caustici e impietosi su una società̀ istupidita e un teatro svuotato di senso. Il tragico epilogo assume il significato di un estremo atto di ribellione. In questa nuova messa in scena, Roberto Andò affida il ruolo di Minetti al grande attore italiano Roberto Herlitzka.

«Come per la narrativa, anche per il teatro Thomas Bernhard resta fedele a un’idea dell’arte come luogo dell’autenticità̀. Nonostante tutto. Nonostante cioè̀ la perversità̀ e la falsità di cui è capace il linguaggio. Ma al linguaggio Bernhard non dà tregua. Non lo distrugge né lo guarda troppo da vicino, ma lo complica e lo ribalta, lo prova e lo riprova come se nelle pieghe più segrete, negli intrighi semantici e sintattici spinti no al grottesco, potesse aprirsi uno spiraglio che faccia intravvedere un po’ più in là nell’orizzonte di tenebra che comunque circonda ed esalta la vita».

(Eugenio Bernardi, La verità della menzogna in Thomas Bernhard, Teatro II, Ubulibri, Milano 1984)

«È scomparso a novantatré anni Bernhard Minetti, il più acclamato attore tedesco di teatro, certamente uno dei grandi in assoluto di questo secolo. Praticamente se n’è andato sulla scena, su cui s’era cimentato no all’ultimo senza risparmio, alternandosi in più spettacoli, magari da una città all’altra, scegliendo con frequenza di mostrarsi morire con la civetteria degli interpreti longevi, come quando con la regia di Grüber aveva interpretato Re Lear o in Phoenix della Cvetaeva il vecchio Casanova innamorato dell’ultima ragazzina. Era considerato un mito. Ma uno dei motivi della sua leggenda consisteva proprio nel fatto che la fama gli era arrivata tardi, dopo i sessanta, quando fece il salto di qualità da buon commediante a mostro sacro. […]»

(Franco Quadri, Un addio in Thomas Bernhard, Teatro II, Ubulibri, Milano 1984)

 

Minetti_

Note di regia

«Minetti si può leggere come un’imprecazione contro il teatro, o come una contestazione della finzione che coincide con il più limpido omaggio offerto alla sua verità.

Se finalmente mi sono deciso a mettere in scena questa pièce lo devo a Roberto Herlitzka, uno dei grandi interpreti del nostro tempo, tra i più congeniali al suo umore.

È infatti nel nome di un gigante del teatro tedesco, Bernhard Minetti, che Thomas Bernhard scrisse questo ritratto dell’attore da vecchio in cui si ritrova l’intero repertorio di ossessioni che marchia la sua opera letteraria e teatrale.

Bernhard non amava il tipo di attore che mediamente incarna questo mestiere, ma era uno spettatore capace di entusiasmarsi quando gli capitava di assistere alla performance di un fuoriclasse, e Minetti rientrava a pieno titolo nella linea e nella forma da lui prediletta. In una lettera a Henning Rischbieter, Bernhard parla di Minetti come di un attore dotato di uno speciale furore, e come uno dei rari artisti del secolo scorso in grado di scardinare le nostre abitudini di pensiero. Solo in un’altra occasione, ne Il nipote di Wittgenstein, avrà parole così lusinghiere per un attore, e sarà per lo svizzero Bruno Ganz.
Come si vede, la figura dell’attore è centrale nell’immaginario del grande scrittore austriaco, basti pensare ad alcuni dei suoi testi teatrali più noti, Semplicemente complicato, L’apparenza inganna o ancora Il teatrante e alle diverse declinazioni che egli lascerà di questa figura in alcuni dei suoi romanzi.

L’attore è per Bernhard l’eroe del fallimento e dell’occasione mancata. E, d’altronde, l’intera sua opera letteraria non è altro che il resoconto, lucido e impietoso, del fallimento. Così come la sigla del suo teatro, e della sua prosa, è la ripetizione («Noi ripetiamo quello che già c’è», dice un suo personaggio), e il prototipo caratteriale di quasi tutti i suoi personaggi un essere prigioniero di «un cervello che parte da se stesso per tornare a se stesso».

Due battute di Minetti sembrano celare una sorta di confessione da parte dello stesso Bernhard:
«L’attore si accosta allo scrittore / e lo scrittore distrugge l’attore / esattamente come l’attore / distrugge lo scrittore / Fare i conti / Fare i conti / Facciamo i conti senza lo scrittore / Lo scrittore fa i conti senza l’attore / In ogni caso sfociamo nella follia». Bernhard sovrappone qui due volti destinati a non coincidere mai, quello dell’attore e quello dello scrittore, inseguendo per l’uno e per l’altro lo scacco del pensiero e del gesto, lo sforzo inane dell’attore per ritrovare nel timbro, o nel ritmo, la musica del pensiero, un’impresa destinata a fallire o a fare impazzire chi la tenta. D’altronde, tutto l’universo di Bernhard riflette l’inesorabile approssimarsi della catastrofe e della follia, l’unico orizzonte ipotizzabile per i progetti artistici e per le relazioni umane «Capisce, signora mia / il mondo è pieno di esistenze artistiche / distrutte», dice ancora Minetti a una signora ospite dell’albergo, nel corso della estenuante nottata trascorsa in attesa del direttore di teatro che gli avrebbe offerto il ruolo di Lear.

Se l’attore è per Bernhard l’esemplare umano che meglio riflette l’errore, l’equivoco, il raggiro, colui che si è assunto la missione più impervia e delicata, «ribaltare in un solo istante il senso della storia e la storia del senso», quello di Lear è il ruolo mancato per antonomasia, il ruolo da cui un attore come Minetti è sempre voluto fuggire. Lear è il punto di fuga di una ipotetica, e mai raggiunta, perfezione, e il suo monologo rappresenta l’esercizio di una infinita, fatalmente fallimentare, palestra dell’acting. Nella stessa lettera in cui tesse l’elogio di Minetti, Bernhard ribadisce al suo interlocutore di non aver mai scritto una riga per il pubblico, di avere esclusivamente scritto per gli attori. «Ho sempre scritto contro il pubblico», dichiara anzi alla fine della stessa lettera. Si tratta di un’affermazione che riveste una certa importanza. Cosa significa essere contro il pubblico e allo stesso tempo amare gli attori? Credo significhi mettere in discussione la legittimità stessa del teatro. Si può anzi dire che Bernhard privilegi il teatro perché vi riconosce qualcosa d’indifendibile, e che lo abbia scelto in quanto è un luogo a perenne rischio di frode («I grandi attori hanno sempre terrificato il loro pubblico / prima lo hanno raggirato / e poi lo hanno terrificato… Simulazione, nient’altro che simulazione»). Allo stesso titolo, si può dire che egli abbia amato gli attori in quanto esseri capaci di vivere sino in fondo il rischio, la frustrazione e la prossimità alla follia. Del tipo di attore alla Minetti, Bernhard amava soprattutto la speciale forma di autoconsapevolezza, per lui lo stato principe, quello che prelude alla pazzia. Ma, a differenza di quanto fosse disposto ad attestare per lo scrittore o per l’artista in genere, Bernhard riconosceva all’attore la possibilità di distrarsi dall’esistenza: «L’esistenza noti bene / è sempre distrazione dall’esistenza / noi esistiamo in quanto ci distraiamo dal nostro esistere». Non c’è una sola delle sue opere in cui Bernhard non abbia voluto fare i conti con il celebre pensiero di Pascal dedicato alla distrazione: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci». Contrariamente all’atteggiamento descritto da Pascal, i personaggi di Bernhard non vogliono distrarsi dalla loro miseria, o dalla loro infelicità.

La teatralità dell’opera di questo geniale scrittore si manifesta infatti nell’incessante bisogno dei suoi personaggi di intonare, e ripetere, una radicale contestazione della vita, istruita attraverso una sorta di processo verbale o di fluviale requisitoria che esclude la possibilità di essere inconsapevoli o distratti. Non a caso i suoi protagonisti sono quasi sempre intellettuali. Le parole che Minetti pronuncia contro il teatro, contro il pubblico, contro i direttori di teatro, lo conducono all’unico finale possibile, il più vero, quello attraverso il quale, per una volta, l’attore, può mettere a frutto la micidiale lezione trasmessagli in gioventù dal padre: l’arte di far sparire le persone.

L’ultima notte dell’anno, consumata vanamente l’attesa del direttore del teatro di Flensburg, Minetti, dopo aver ingoiato svariate pillole e indossato la maschera di Lear, va a sedersi su una panca, lasciando che una fitta tormenta di neve lo inghiotta. Una sublime forma di sparizione.

Negli istanti prodigiosi e paradossali di questa struggente dissolvenza, l’illusionismo diviene il supremo compimento dell’arte drammatica».

(Roberto Andò)

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