Nella patria di Ebola

Una donna parla al cellulare di fronte alla sua abitazione, lo sguardo perso nel vuoto, una mano sui fianchi.

 

La foto di John Moore per Getty Images racconta che quella donna sta aspettando gli uomini che verranno a portare via un morto dalla sua casa a Monrovia, capitale della Liberia, provincia di Ebola. Non l’unica, ma una delle foto che rende meglio l’idea di cosa succede nella regione africana maggiormente colpita dall’epidemia, soprattutto perché fa capire la natura e i veicoli di contagio di ebola: una donna in attesa con i piedi che affondano nell’acqua fangosa, la stessa acqua dalla quale emergono la sua casa poggiata sopra una struttura di palafitte con le pareti di lamiera ondulata, quattro copertoni usati conducono alla porta, ma non è comunque possibile evitare il contatto con l’acqua per raggiungerla. E l’acqua non è solo fiume, o laguna, o palude. È soprattutto fogna a cielo aperto.

Un’altra foto inquadra West Point, lo slum di Monrovia più povero pieno di baracche con tetti in lamiera che si estende per chilometri e chilometri. Questo tipo di urbanizzazione, secondo un articolo apparso all’inizio di agosto su New Scientist, è il principale vettore epidemico di ebola nel 2014: la forma rurale e l’isolamento delle comunità è fattore di minimizzazione del contagio ma allo stesso tempo si diffonde su più persone perché, secondo le stime della African Development Bank, la popolazione urbana del continente africano è destinata a crescere dal 36 percento attuale al 60 percento nel 2050. La prima cosa da tenere a mente su ebola è che il virus non ama viaggiare.

Ma è la percezione di rischio ad essere distorta, non il pericolo reale. Non esistono prove fondate che lo Stato Islamico voglia diffondere ebola in occidente, anche se il rapporto tra contagiati europei e decessi in Africa tendono a considerare tale ipotesi. D’altra parte ebola ha un tasso di mortalità elevatissimo, ma non si rischia nessun contagio aereo perché il virus si trasmette solo con il contatto diretto dei fluidi corporei di chi è già malato.

Monrovia è la patria di ebola. Lo è diventata negli ultimi decenni a causa dell’enorme pantano che circonda la capitale liberiana; pantano usato come fogna a cielo aperto, come cortile, come piazza. È l’ambiente ideale per diffondere ebola ed il peggiore per i coraggiosi operatori sanitari che lavorano in quell’inferno. Operatori che si trovano spesso a doversi difendere dall’isteria collettiva che li accusa di portare la malattia, anziché debellarla. Il pericolo diventa serio quando l’isteria si tramuta in odio: personale medico cacciato o ucciso, strutture sanitarie prese d’assalto e i cadaveri trafugati. Ma il pericolo di contagio è davvero limitato.

In occidente non ci facciamo problemi perché le strutture sono adeguate e attrezzate nel fronteggiare l’epidemia. Per questo gli operatori sanitari occidentali contagiati a Monrovia vengono tempestivamente riportati a casa: alcuni guariscono, altri, purtroppo, muoiono. Ebola non dà scampo e la realtà è già abbastanza drammatica così com’è, ma nessun terrorista potrebbe portare ebola in occidente se non contagiato lui stesso. Ma ebola non viaggia volentieri ed uccide in brevissimo tempo chi ci tenta.

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