Passione e sentimento in “Fedora”, accolta con successo al Bellini di Catania

Il dramma di Umberto Giordano dopo tanti anni torna nella città etnea con belle voci e gradevoli scenografie; la protesta dei lavoratori del teatro nel finale

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Alla vigilia della conclusione del secolo XIX, molti avvenimenti che avrebbero deciso le sorti del Novecento erano in piena maturazione, in Italia e nel mondo. Forse nessuno avrebbe immaginato che la felice e progressiva sorte del modernismo di Eriberto Spencer, cantato nelle Poesie Religiose di Mario Rapisardi come inno alla Natura rigeneratrice  e veduto come inizio della grande tecnologica civiltà (l’avvento della illuminazione elettrica, l’acqua corrente nelle case per dire due fondamentali segni di progresso), si sarebbe infranto nel carnajo della grande guerra, così precisamente delineata nelle pagine di quel  luminoso giornalista e scrittore che fu Emilio Ludwig, in Luglio 1914. Intuizione  che ebbe, tra i pochi, Leone Tolstoj. Il 1898 in Italia da solo trentasette anni unita, regnando Umberto I il “buono”, era trascorso fra ampie proteste di piazza che i governi non riuscivano a comprendere reagendo, come nella tradizione della paura (ma oggi l’attuale esecutivo di Francia non fa lo stesso, mutatis mutandis? Eppure pochi lo rimproverano…) a colpi di moschetto e, nel caso più grave a Milano, coi cannoni del generale Bava Beccaris, Presidente del Consiglio il generale Luigi Pelloux: era il “tintinnìo di sciabole” che rassicurava la “porca borghesia” (avrebbe detto D’Annunzio)  ma che faceva tremare i palazzi del potere, all’alba di quel sole dell’avvenire socialista il quale, se nelle intenzioni di buoni come Edmondo De Amicis e di tribuni del cuore come Andrea Costa e Giuseppe De Felice Giuffrida, dovea risolversi nel miglioramento delle condizioni sociali del popolo, ebbe a sbocco finale, con la divisa dei reduci e il lavacro di sangue che tuttavia cementò in maniera del tutto sacra la Patria con le battaglie sul Carso sull’Isonzo e sul Piave, il tramonto degli Imperi e la nuova Europa gloriosa e fiera del primo dopoguera. In tutto ciò, la nobiltà e di converso la plebe col cuscinetto degli “homini novi” della borghesia, impazzivano per i romanzi di Vittoriano Sardou, magistralmente interpretati dalla celeberrima Sarah Bernhardt: uno di codesti predilesse il meridionale Umberto Giordano per musicarlo, divenendo “Fedora”. Col testo dell’esule zaratino Arturo Colautti, giornalista e irredentista (sì, allora i giornalisti quelli veri, scrivevano testi teatrali di successo e rischiavano la vita per l’Italia…) trapiantato a Napoli,  il dramma di amore e morte, sulla scia del movimento verista, fu un grande successo al Lirico di Milano perchè si scelse la già famosissima Gemma Bellincioni Stagno per il ruolo principale di Fedora e un giovane per il personaggio di Loris, che da lì avrebbe spiccato il volo -letteralmente- per le lontane Americhe sino all’empireo dei miti, ovvero Enrico Caruso (che diverrà il Cav. , come teneva a far scrivere nelle incisioni fonografiche: allora come oggi, è un onore essere Dame e Cavalieri del Re,intendendo la Casa regnante d’Italia naturalmente; serve precisare dati i molti, troppi inutili revanscismi di sifilitici ordini preunitari che ammorbano l’aire).   

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Questa opera bella, intensa, vocalmente impegnativa, è stata data in première il 17 marzo, non casualmente genetliaco della Unità nazionale (nel 1861 il Re Vittorio Emanuele II con atto del Parlamento torinese ratificato dal Presidente del Consiglio Camillo di Cavour, assumeva per se ed i successori, il titolo di Re d’Italia), al teatro Bellini di Catania, regia di Salvo Piro, maestro del Coro Luigi Petrozziello, direttore d’orchestra Gennaro Cappabianca. Doveva esserci Daniel Oren ma un infortunio al piede lo ha bloccato in ospedale. Già questo deluse alcuni, anche se diciamo subito che la onesta e seria direzione del Cappabianca non fece rimpiangere, e non fu eresia, l’assenza forzata del celebre Maestro: tuttavia vasti vuoti in platea e il teatro a stento popolato fino a metà del secondo ordine, non diedero una bella immagine di compattezza e presenza della città -a parte i cosiddetti “affezionati” e le presenze fisse- per una prima che si rispetti specie nel frangente attuale. I motivi sono tanti, non secondario quello economico (anche se nelle recite successive la direzione si è sforzata di aprire di più a varie categorie sociali: ma si può fare meglio, oggi usa che nei teatri importanti ai giovani fino a 25 anni si forniscano biglietti a prezzo bassissimo, metodo da avviare anche per le nostre prime: non può esserci solo presenza di persone dai quaranta in su…), ma non serve ora elencarli.   Gli è che, fatto incontrovertibile anche se dovere nostro è combattere codesta infausta tendenza, sta scemando l’amore per la grande lirica in linea generale e opere come Fedora, che del repertorio classico sono “cavalli di battaglia”, meritano di essere vieppiù conosciute perché le si apprezzi, la direzione artistica del Bellini ha operato di rappresentarla, accertato che -come ci si riferiva da fonti autorevoli- essa mancava da casa nostra sin dal 1976, troppo tempo.

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Scene gradevoli e nella loro semplicità, suggestive, provenienti dal teatro di Foggia intitolato all’illustre compositore, descriventi i tre atti in Pietroburgo Parigi e in Svizzera, hanno accompagnato la rappresentazione, che fu ben accolta e gradita dai presenti (l’uscita sul palco negli intermezzi tra primo e secondo atto degli artisti ci pàrve un po’ eccessiva e pretenziosa  ma si può perdonare…)  specie nel finale, ove non vennero lesinati applausi densi anche se non prolungati.  Il cast fu più che buono, all’altezza della tradizione di Fedora che vide tutte le grandi cantanti liriche cimentarsi in questo ruolo sanguigno e denso, drammone fosco e primigenio ove l’odio l’amore il tormento la fanno da padrone assoluto: così come Loris che da Caruso ha visto Di Stefano, Corelli, Lauri Volpi fino a Tito Schipa: qui il tenore russo Sergey Polyakov, all’inizio stentatamente, ha dato riscontro molto apprezzabile, pur nella pastosità della sua voce, particolarmente espressa nella notissima aria “amor ti vieta”, il cui refrain è ripetuto in più parti dell’opera; così nel ruolo principale  il soprano lettone, ma che fa parte della Israeli opera, Ira Bertman, anch’ella inizialmente stentata e con ridotta presenza scenica, sin dal secondo atto e poi nel finale, ha espresso la magìa sanguigna che Fedora, “russa donna due volte” (come afferma il capo della polizia De Siriex, qui interpretato da Ionut Pascu anch’egli riescito più che bene) sa donare in tal contesto.   Così che nel riconoscimento del dramma, laddove Fedora vuole risolvere la tragedia e altro mezzo non vede che darsi la morte andando verso la Luce dello sfondo mentre nel suo corpo s’avventano le tenebre della fine, la Bertman ha còlto il significato, difficile da rendere, del personaggio che Giordano e Colautti vollero creare. La tradizione pesa ancora, per quanto si voglia sottacerla  è del tutto rilevante rivestendo ruoli di cotanto spessore. Così è da ricordare, nel secondo atto, il quadro pianistico con luminosità virtuosistica espresso da Paola Selvaggio, una pagina che i maestri di pianoforte ben conoscono e che non è del tutto semplice. Plauso anche ad Anastasia Bartoli nel ruolo della contessa Olga: con ampia presenza vocale e di non secondaria scenicità (magari anche ricercata, con la liberalità del regista), il giovane soprano ha cercato, riuscendoci, di dimostrare che la tradizione familiare ha, a volte, un peso importante nelle situazioni.  Da apprezzare la resa vocale e scenica dei nostri artisti, dal mezzosoprano Sonia Fortunato (un ottimo Dimitri), a Riccardo Palazzo (Barone Rouvel) sempre attento ai particolari, da Sabrina Messina (piccolo Savoiardo) a Gianluca Tumino (Borov).   Alla fine dell’opera si è scelto di manifestare da parte dei lavoratori del teatro, dati i tempi difficili a livello finanziario attraversati dall’ente, con una composta presenza sul palco e un cartellone ove si auspica la “non morte” del settore, che è invero in crisi in tutta la Nazione anche se in altri luoghi gli enti teatrali più importanti sono ampiamente sostenuti e supportati.   Tra il pubblico, notaronsì esponenti dei club services Rotary e degli Ordini Dinastici della Real Casa di Savoja; sfoggio di pellicce -vere-  stile ampiamente tradizionale per le ingiojellate signore (finchè la primavera ridotta di Catania dia spazio alla canicola estiva, è d’uopo…) nonché papillon e noir per gli uomini, han fatto da contorno ad un evento importante per la nostra città che si augura possa coinvolgere, come era un tempo e devesi tornare, ampie e ben più corpose masse popolari le quali potranno apprezzare la passionale intensità del messaggio insito nell’opera, che alimenta la speranza e la fede, se così laicamente può dirsi, nei tempi a venire.                                                                          image4                                 

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