Il terremoto del dicembre del 2018: un “legame profondo” con il territorio della Sicilia orientale

Ad originarlo i processi dinamici della tettonica regionale secondo uno studio dei ricercatori dell’Università di Catania pubblicato sulla rivista Tectonics e segnalato come contributo di particolare rilevanza scientifica dall’American Geophysical Union.

Il terremoto del 26 dicembre del 2018 che ha colpito le zone di Fleri, Pennisi e Santa Maria La Stella tra Acireale e Zafferana Etnea è stato causato dai processi dinamici della tettonica regionale della Sicilia orientale ed è riferito a meccanismi di deformazione crostale già riconosciuti attivi nell’area prima della crescita dell’attuale edificio vulcanico.
A dimostrarlo è lo studio dal titolo “The 2018 Mount Etna Earthquake (Mw 4.9): Depicting a Natural Model of a Composite Fault System From Coseismic Surface Breaks”, realizzato da un team di ricercatori della sezione di Scienze della Terra del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e pubblicato di recente sulla rivista Tectonics dell’American Geophysical Union.
A realizzare la ricerca un team dell’ateneo catanese coordinato dal prof. Stefano Catalano e costituito da ricercatori che si sono formati all’Università di Catania: Giuseppe Tortorici, Gino Romagnoli (oggi all’Ispra di Roma) e Francesco Pavano (attualmente visiting researcher alla Lehigh University negli Stati Uniti).

La rilevanza scientifica della ricerca è stata sottolineata dall’Editor Judith Hubbard che ha segnalato il lavoro con un proprio commento dal titolo “Volcano—Tectonic Interactions at Etna” pubblicato sulla rivista di divulgazione “eos” dell’American Geophysical Union. Con questo prestigioso riconoscimento, riservato a una ristretta fascia di contributi scientifici (circa il 2%) degli articoli pubblicati sulle riviste AGU, l’Editor ha evidenziato che la ricerca deriva da una prospettiva originale di interpretazione dell’evento che, seppure sviluppato nel contesto vulcano-tettonico dell’Etna, è stato inquadrato nei processi dinamici della tettonica regionale della Sicilia orientale.

«Lo studio ha riguardato il rilevamento dettagliato della fratturazione al suolo del terremoto del dicembre del 2018 che si è generata lungo una fascia arcuata, nota come Faglia di Fiandaca, estesa da Fleri fino alla periferia settentrionale di Acireale – spiegano i ricercatori -. La presenza della faglia, sepolta dalle lave recenti dell’Etna, si manifesta in superficie solo a seguito di forti terremoti. L’evento del 2018 ha riattivato la struttura per la sua intera lunghezza costituendo un’occasione unica, difficilmente ripetibile, per la raccolta di un set completo di dati per migliorare la conoscenza dei caratteri della faglia in profondità e la definizione delle possibili aree suscettibili di fratturazione al suolo per eventi futuri».

Ma lo studio ha evidenziato anche che la deformazione superficiale che si è sviluppata col terremoto del 2018, di magnitudo 4.8, è stata causata da movimenti lungo due distinte strutture.
«La prima è la faglia sismogenetica, orientata in direzione nord-ovest/sud-est che ha prodotto la fascia di fratturazione dall’abitato di Fleri fino a Pennisi – spiegano i ricercatori -. La struttura si è riattivata con movimenti di scorrimento laterale destro causati dalla convergenza attiva tra Africa ed Europa, i cui effetti sono ben evidenti in tutto il settore sud-occidentale dell’Etna. La propagazione della faglia sismogenetica si è interrotta, nella zona di Pennisi, all’intersezione con una faglia orientata nord-nord-ovest/sud-sud-est lungo la quale si è canalizzata la fratturazione al suolo che ha interessato un segmento esteso da Pennisi fino a Santa Maria la Stella. Questa seconda struttura ha agito, durante il terremoto, come una barriera tettonica, attraverso cui è cambiato radicalmente lo stile della deformazione e gli effetti al suolo. Una “trasformazione” che evidenzia il ruolo primario di questo allineamento che, in realtà, è parte di un limite tettonico di estensione regionale che si prolunga dall’off-shore di Acireale fino all’Etna, rappresentando parte del confine geologico tra le aree collisionali della Sicilia e la regione ionica, soggetta invece a movimenti di estensione crostale».

La ricerca, inoltre, ha dimostrato che questo lineamento regionale è stato attivo ben prima della formazione dell’attuale edificio del Mongibello, rappresentando una delle principali strutture tettoniche oggi sepolte sotto il vulcano.
«Nelle future definizioni del comportamento delle aree di instabilità connesse alle due faglie, per eventuali delimitazioni di zone di rispetto e di suscettibilità, è importante annotare la lezione del terremoto del dicembre del 2018 – continuano i ricercatori -. L’evento ha mostrato chiaramente che lungo il settore tra Fleri e Pennisi la fascia di instabilità è stata caratterizzata da una estrema variabilità della tipologia delle fratture al suolo (da millimetriche a decimetriche) e una loro notevole dispersione areale (fino a 500 metri di distanza dalla struttura generatrice). Questo comportamento spiega il motivo della indeterminazione della precisa localizzazione della struttura, la cui traccia era assente in parte della cartografia geologica e tematica esistente o segnalata a circa 400 metri più a sud-ovest della fascia rilevata nel 2018. Al contrario, lungo il segmento tra Pennisi e Santa Maria la Stella la fratturazione si è manifestata lungo un lineamento tettonico già ben impresso nella topografia dell’area, anche se la deformazione al suolo ha interessato una fascia ampia fino a 50 metri dalla traccia della faglia, con evidenti effetti di basculamento del terreno associati alla dislocazione del suolo».

a Cognita Design production
Torna in alto