“Passi” oltre i confini: la passione per la danza del Maestro Samir Da Silva Calixto e la decisione di vivere in Sicilia

Durante la quarta edizione del Focolaio di Infezione Creativa (FIC) a Catania, dal 7 al 14 maggio, abbiamo avuto il privilegio di conoscere, personalmente, e intervistare Samir Da Silva Calixto, un rinomato coreografo contemporaneo.

Samir Da Silva Calixto ha, anche, condiviso la sua visione e il suo approccio artistico in incontri e workshop, ispirando giovani talenti e appassionati di danza a esplorare nuove strade creative. La sua partecipazione al FIC ha arricchito il programma artistico e ha contribuito a consolidare la reputazione della manifestazione come una piattaforma di eccellenza per l’esplorazione e la promozione dell’arte e della cultura. Nella società contemporanea, molti giovani talenti si trovano ad affrontare la difficile decisione di lasciare le proprie città natali alla ricerca di opportunità lavorative migliori. Questa scelta implica spesso il coraggio di abbandonare ciò che è familiare e confortante, per intraprendere un viaggio verso l’ignoto. Tuttavia, in questa sfida, possono emergere figure come Samir, che attraverso la sua arte e il suo messaggio positivo di speranza, si fa portavoce di una nuova visione.

L’esperienza del Maestro Samir rappresenta un faro di ispirazione per quei giovani che, come lui, hanno la volontà di esplorare nuovi orizzonti e realizzare i propri sogni. Con il suo coraggio di rompere gli schemi e affrontare le difficoltà, Samir dimostra che anche nelle situazioni più complesse e incerte, è possibile creare qualcosa di straordinario. Attraverso la sua arte, Samir invita i giovani a credere in se stessi e nelle proprie capacità, incoraggiandoli a seguire le loro passioni senza paura. Il suo messaggio positivo di speranza si traduce in una spinta per i giovani talenti a non arrendersi di fronte alle difficoltà, ma piuttosto a trasformarle in opportunità di crescita personale.

Samir è un esempio vivente di come l’impegno, la determinazione e la perseveranza possano portare alla realizzazione dei propri obiettivi. La sua storia ispira i giovani a non temere i cambiamenti e ad abbracciare il coraggio di lasciare la propria città in cerca di nuove opportunità. In tal modo, Samir apre la strada per una generazione di giovani talenti che possono trovare la forza di seguire i propri sogni, contribuendo così alla costruzione di un futuro migliore e più luminoso.

Quando ha iniziato a ballare e cosa lo ha spinto ad avvicinarsi a questa forma d’arte?

La mia traiettoria è stata, fin dall’inizio, molto particolare. Ho sempre avuto la costituzione fisica di un danzatore, però non ho potuto studiare danza fin da piccolo. Appartengo a una generazione che, purtroppo, aveva ancora molti pregiudizi nei confronti degli uomini che diventavano ballerini. Per questo motivo ho iniziato molto presto in Brasile come attore (ancora bambino) partecipando a produzioni da quando avevo circa otto anni ed entrando a far parte di una troupe quando avevo circa quindici anni. Lì sono rimasto affascinato da tutte le coreografie degli spettacoli e mi sono avvicinato sempre di più alla danza. Tuttavia, in casa mia c’era una certa opposizione nei confronti della danza. Ma, questo, non è bastato a impedirmi di perseguirla. Ho preso lezioni di danza classica nascoste in una piccola accademia della mia città dopo aver spiegato loro la mia situazione, tenendo la mia famiglia all’oscuro di tutto. Era l’unico modo di farlo. La situazione è cambiata quando sono entrato all’Università di Arte Drammatica di San Paolo e, dopo essere stato scelto da una giovane coreografa per ballare un solo in un concorso, ho vinto il primo premio. A quel punto la mia famiglia ha iniziato a vedere che facevo sul serio e che non mi arrendevo. Il loro atteggiamento è cambiato e con gli anni sono diventati i miei più grandi sostenitori. Ma non me la prendo per questo. Tuttavia questo periodo in cui ho lavorato come attore, mi sono laureato in arte drammatica e poi ho studiato musica classica come cantante è stato fondamentale per la mia formazione. È stato non solo un modo per sviluppare la mia inevitabile voglia di essere un artista, però anche un modo per amplificare quella che oggi considero una visione più ampia come coreografo.

Quali sono stati i motivi principali che lo hanno spinto a lasciare la Sua patria e trasferirsi in Sicilia?

In effetti, questa forte esperienza di lasciare il mio Paese è avvenuta quasi vent’anni fa, quando ho lasciato il Brasile per andare nei Paesi Bassi. All’epoca avevo 25 anni e mi ero appena laureato, quindi era il momento perfetto per farlo. In Olanda ho iniziato a lavorare come danzatore freelance o con contratti a breve termine con qualche compagnia. Per i primi otto anni ho ballato tutto quello che potevo, dallo Schiaccianoci a lavori di danza contemporanea ultra concettuali. Lo vedevo come parte della mia formazione. Il passaggio alla coreografia è avvenuto più tardi, circa undici anni fa, e ho avuto la fortuna di essere assunto come uno dei coreografi residenti del Korzo Theater dell’Aia, una delle più grandi case di produzione del Paese e all’epoca di grande rilevanza in Europa. In quel periodo ho ricevuto l’incarico di coreografare per la CZD2 a Catania, e, poi, le cose cominciarono a cambiare. C’è stata un’identificazione immediata con quello che si fa a Scenario Pubblico, e questo mi ha colpito profondamente. Ho ricevuto l’invito di Roberto Zappalà e Maria Inguscio a diventare coreografo associato per tre anni a partire dal 2017, e il nostro rapporto si è sviluppato in qualcosa di molto bello e unico. In quel periodo sono venuto spesso a Catania per residenze, spettacoli e a volte solo per stare qui. Avevo la sensazione che qui ci fosse qualcosa, artisticamente e umanamente, che mi mancava in Olanda – con tutta la gratitudine che ho per quel paese così particolare e il sostegno che mi ha datto. Poi ho iniziato a organizzare la mia vita in modo da poter combinare una vita qua in Sicilia con una parte del mio lavoro in Olanda, e in questo processo ho finito per fare il grande passo e finalmente acquistare un appartamento a Catania, un passo piuttosto radicale, come dovrebbero essere queste decisioni di cambiamento di vita.

Quali differenze tecniche e di stile ha riscontrato nelle compagnie di danza in Sicilia?

Per la mia esperienza in tutta Europa, alcuni dei danzatori più interessanti in circolazione sono italiani, soprattutto quelli del sud. Ho la sensazione che ci sia qualcosa nell’urgenza, nella vitalità e nell’arrendevolezza con cui si avvicinano alla danza che li rende davvero unici. E questo vale per i danzatori che vengono allevati all’interno di Scenario Pubblico. Gran parte del merito va attribuito alla visione e alla tenacia di Roberto e Maria, e al modo in cui concepiscono il lavoro e la formazione dei giovani artisti. È sempre più raro che questa giovane generazione abbia l’opportunità di esplorare quello che io chiamo un “lavoro verticale“, un lavoro che approfondisce un linguaggio o un’idea invece di privilegiare una versatilità che molto spesso è legata a una visione di mercato che fornisce danzatori alle compagnie e a un repertorio piuttosto generalista (anche se di alta qualità). Il lavoro che si sta svolgendo qui favorisce la prima opzione, quella della concentrazione e dell’integrità artistica, e ha un impatto diretto sulle qualità artistiche e umane dei danzatori che vedo qui.

In che modo ha contribuito a introdurre innovazioni nelle compagnie di danza in Sicilia?

Per ora mi vedo ancora all’inizio di questo percorso e, in tutta onestà, preferisco pensare in termini di contributo piuttosto che di innovazione. Per me contribuire significa lavorare insieme, sommare un lavoro e un desiderio di crescita che già c’è, essere parte di una bella catena di creazione che è legata al passato e al futuro. A volte fare qualcosa di nuovo, o innovare, può suonare come un concetto molto sopravvalutato, a mio modesto parere. È illusorio, perché non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Come la natura che si rinnova e si trasforma, vedo la mia esperienza qui come un’esperienza che ha l’intenzione di partecipare alla creazione di qualcosa di più grande di tutti noi, qualcosa di più importante della mia individualità. Partecipare a un’esperienza umana attraverso lo spirito artistico che è così presente nell’anima antica della Sicilia. E non vedo l’ora di arrivare in fondo a questa esperienza.

Perché ha scelto Catania?

Dico sempre che Catania mi ha stregato, fin dall’inizio. Ricordo che dopo aver trascorso qui il mio primo mese dopo la creazione di ‘Bramato’, la coreografia fatta per la giovane compagnia di Zappala, me ne andai con le lacrime agli occhi, con la forte sensazione di aver trovato il mio posto. C’è un senso di onestà nella bellezza grezza del suo centro, ancora abitato da veri catanesi e non ancora imborghesito come molti centri turistici in Europa, che mi affascina. La ricchezza della storia diffusa in tutta la città, l’onnipresenza dell’Etna e dei suoi poteri mitici mi fanno sentire vivo e parte di qualcosa di più grande, oltre a ricordarmi costantemente quanto siamo impotenti di fronte alla forza della natura, qualcosa di così importante da ricordare in una società contemporanea così presa dai nostri drammi e dalle nostre conquiste insensate. A parte questo, cito ancora una volta Scenario Pubblico come un fattore importante nella mia decisione perché funziona come una forte attrazione artistica, un luogo creativo magnetico. È un centro di potere che ha attratto tanto verso la Sicilia, ed è notevole ciò che ha fatto per la isola e per la danza italiana in generale. Tutto questo ha fatto sì che Catania non fosse nemmeno una scelta per me, ma una direzione inevitabile.

Qual è il Suo genere di danza preferito e perché?

In tutta onestà non ho un genere di danza preferito. Tendo ad apprezzare la danza che si basa sull’onestà del coreografo e dei danzatori, soprattutto in questi lavori in cui il corpo è il contenitore di esperienze non ordinarie. Sono cresciuto in Brasile osservando le persone che danzavano nei rituali, per onorare le forze della natura o anche in una sorta di trance, lì non c’è performare, però, invece, l’atto istintivo di un corpo che manifesta un’energia che non può essere contenuta. Per questo motivo mi lego veramente ai lavori che manifestano un senso di urgenza, che si tratti di un balletto o di una creazione molto contemporanea. Per me, indipendentemente dallo stile, il corpo deve prevalere, mai la mente. O almeno di avere un forte equilibrio tra di loro, dato che come esseri umani siamo fatti di tutto questo.

Come descriverebbe il Suo stile di danza personale?

Il mio lavoro è molto influenzato da ciò che ho detto in precedenza, dal vedere la danza come la manifestazione di uno stato emotivo-psico-fisico piuttosto che come un’esibizione di virtuosismo. Questo non significa che neghi la forma, anzi: come in un rituale, una forma accurata e precisa è essenziale come punto di partenza. Quindi gioco molto con la tensione tra il nostro caos interiore, le nostre ondate incontrollabili di energia e il rigore formale tentato dai danzatori. In questo senso mi considero un “coreografo contemporaneo accidentale“, poiché il termine contemporaneo ha più a che fare con il fatto che creo qui e ora che con il contenuto del mio lavoro. Questo perché sono molto attratto da soggetti senza tempo, evitando consapevolmente i temi di moda che per me riducono la nostra esperienza umana a soggetti immediatamente identificabili piuttosto che concentrarsi sull’essenza umana, che per me è il punto di maggiore interesse. Le cose che ci riguardano e che rimangono immutate nel tempo. Da qui l’ispirazione delle mie opere alla filosofia e agli studi antichi.

Qual è stata la Sua più grande sfida come ballerino e come l’ha affrontata?

Credo che ciò che è stato difficile per me sia stato recuperare il fatto che ho iniziato a lavorare sulla mia tecnica piuttosto tardi per le ragioni che ho menzionato prima. Questo ha rappresentato una sfida quando ho iniziato a lavorare in Olanda, quando mi sono visto nella stessa sala di prova a lavorare con ballerini che avevano danzato per Kylian, Forsythe, Naharin e tutti i grandi maestri. Questo, inizialmente, ha messo in crisi la mia fiducia. Avevo due possibilità: lasciarmi abbattere o continuare a lavorare per diventare la versione migliore di me stesso. E ho fatto la seconda, sfruttando le mie prime esperienze professionali per assorbire quante più informazioni possibili da colleghi più esperti. Per esempio, fino a un certo punto mi consideravo una persona che imparava lentamente, finché una volta ho dovuto imparare un intero balletto in un giorno per la prima della sera. L’ho fatto e questa sfida in particolare è stata come un rito di passaggio. In seguito, come coreografo, ho affrontato e continuo ad affrontare, come molti dei miei colleghi, molte sfide, come spettacoli in circostanze difficili, processi creativi conflittuali, controversie relative a produzioni specifiche, ma alla fine tutto ciò si traduce in una grande crescita. Comunque nel complesso il bilancio è positivo e mi sento molto fortunato.

Qual è il Suo processo creativo quando prepara una coreografia o una nuova performance?

Credo che il mio processo creativo sia fortemente influenzato dal fatto che ho studiato teatro e per questo ho avuto modo di capire i meccanismi di costruzione di un’opera scenica. Inoltre, mi approccio alla musica come una persona che l’ha studiata, guardando sempre alla sua struttura per esempio. Tutto ciò mi dà una forte tendenza a considerare un lavoro di danza come un’opera d’arte totale, in cui gli elementi devono essere collegati in modo coerente fin dall’inizio. Per questo motivo, di solito parto da un punto molto chiaro, che sia un’intera composizione musicale, un libro, un saggio o una convergenza esistente tra due opere d’arte. Per esempio, nei miei lavori “M” e “W” sono partito dalla relazione esistente tra Mahler, Wagner e Nietzsche (Così parlò Zarathustra nel primo e Tristano e Isotta nel secondo). Da lì faccio molta ricerca, approfondendo il più possibile l’argomento, scrivendo anche le mie idee in modo piuttosto esteso, creando un moodboard con la genesi dell’identità visiva per quello lavoro specifico, a volte anche viaggiando per raccogliere impressioni. Solo a quel punto inizio il lavoro con i danzatori, condividendo con loro queste informazioni, ma anche permettendo loro di ‘trapelare’ nel processo creativo in modo intuitivo. È quello che abbiamo fatto per esempio con “W”, una coproduzione con Scenario Pubblico. Abbiamo portato i cinque danzatrici sull’Etna, poiché il lavoro si basava su figure mitiche femminili (e mi è stato detto che l’Etna è una femmina), in modo che potessero connettersi a questa energia primordiale e incanalarla nella creazione. A parte questo, c’è l’aspetto del lavoro che riguarda il linguaggio fisico. Nei processi creativi più lunghi trascorro almeno due settimane solo ad allenare i danzatori al linguaggio che ho sviluppato, quindi c’è anche una forma di coerenza fisica nel lavoro. E tante altre cose, come sviluppare il linguaggio visuale dello spettacolo che per me è, anche, molto importante, è come un grande viaggio che può durare anni.

Quali sono i Suoi ballerini o coreografi di riferimento?

In realtà ho tratto ispirazione più d’artisti contemporanei di altre discipline che dalla danza, senza ragioni specifiche. Ad esempio, amo le opere del regista Terrence Malick, che ha una visione molto filosofica del cinema, sfidando le aspettative della gente su questa forma d’arte. Anche il regista teatrale Peter Brook, recentemente morto, aveva un approccio così umanitario e unico alle arti sceniche, unendo le culture e cercando spesso l’universalità in tutti i temi che affrontava. C’è un coreografo vivente che ha cambiato il mio modo di vedere la danza: il giapponese Saburo Teshigawara, il cui lavoro è molto lontano da quello che facciamo qui in Occidente. Il suo lavoro è poetico e tagliente allo stesso tempo, e si basa su una forma di concentrazione che è molto impegnativa per gli interpreti occidentali. Mi identifico totalmente con questa mentalità in cui l’apporto dell’esecutore deve essere totale, di solito, è difficile da richiedere nel contesto in cui dobbiamo lavorare in Europa, per motivi diversi.

Come si prepara fisicamente e mentalmente prima di una performance importante?

Spesso la preparazione di una giornata di performance inizia subito dopo il risveglio. Sapere che ho uno spettacolo cambia il mio atteggiamento durante l’intera giornata, su quanto dovrei mangiare, respirare e tutto il resto in modo consapevole. Quindi, una volta nel teatro, stiamo parlando, di molta concentrazione e una lunga sessione di riscaldamento. La coordinazione tra respirazione e movimento è fondamentale. Per esempio da molti anni sono un esperto di yoga, e oltre al training che ho sviluppato per i danzatori ho trovato il modo di introdurlo in modo particolare nel lavoro. I benefici sono grandi e in un giorno di spettacolo ripagano.

Qual è il momento più emozionante o gratificante che ha vissuto sulla scena?

Ci sono due momenti con la stessa produzione chiamata 4 SEASONS (Le Quattro Stagioni), che è stata nominata come miglior spettacolo in Olanda e che intendiamo riproporre in Sicilia nel prossimo periodo. Uno è stato quando, alla fine di una replica molto difficile in Francia poco dopo la morte di mia madre, abbiamo avuto un applauso pazzesco di dieci minuti da una sala con quasi 800 persone. La gente era impazzita. Mi è sembrato surreale come il dolore e la gioia possano essere vissuti così strettamente in un’esperienza artistica. E un anno dopo, quando ci siamo esibiti in un festival in Senegal (Africa). Le condizioni erano molto umili, ma il pubblico era un dono. Durante lo spettacolo, i membri del pubblico reagivano e urlavano di gioia, si alzavano, si giravano e continuavano a guardare come se fossero un tutt’uno con noi. Mi ha portato alle lacrime. Indimenticabile.

Come interagisce con il pubblico attraverso le tue coreografie e quali emozioni cerca di evocare in loro?

Il mio rapporto con il pubblico è di reciprocità. C’è un dare e un ricevere da entrambe le parti. Noi ci sforziamo di essere presenti e di offrire il nostro meglio come artisti, e credo che anche il pubblico abbia lo stesso ruolo di partecipare a questo scambio. Trovo sbagliato pensare che l’acquisto di un biglietto significa che il pubblico deve posizionarsi come parte passiva di questo processo, come chi consuma un prodotto. Al contrario, nell’era di internet e dello streaming, tra tante opzioni il pubblico fa una scelta forte per venire a vedere il tuo lavoro. Quindi è meglio che onori quella scelta e quella frazione di vita data a quel momento, in modo che possa comprendere il potenziale di (auto)scoperta in quell’incontro dal vivo. Con questo in mente, si diventa la mia responsabilità assicurarmi che quella connessione sia carica di valore umano (e libera da qualsiasi altro valore). Non c’è mai la garanzia, ma c’è l’intenzione e il lavoro svolto. Tuttavia, è, anche, responsabilità del pubblico aprirsi a quell’esperienza con rispetto, anche se non corrisponde alle sue aspettative. Spesso lo paragono a un invito a cena. Il mio ruolo è quello di assicurarmi che la qualità del cibo sia eccellente. Non necessariamente un cibo elegante, ma qualcosa di altamente nutriente, anche se si tratta di un piatto umile. Quello che diamo come artisti è cibo per i pensieri, cibo per il cuore e per lo spirito, e questo avviene in modo consapevole o inconsapevole. Io lavoro onestamente per realizzare questo processo in modo consapevole, cosciente della sua soggettività e del suo potenziale per molteplici interpretazioni.

Qual è il consiglio più prezioso che ha ricevuto come ballerino e che consiglio darebbe a chi sta iniziando?

Ricordo una insegnante in Brasile che una volta disse: “Ci sono artisti che lavorano dicendo ‘sì’, altri che lavorano dicendo ‘no’. Chiediti quale tipo sei“. Io ho scelto di dire di sì a tutto all’inizio, di ballare tutto quello che potevo, in modo da avere una base per giudicare in seguito quale sarebbe stato il mio percorso in base all’esperienza, non a mere congetture. Sono tempi molto pericolosi per i giovani artisti oggi, perché hanno accesso a frammenti di ogni tipo di lavoro online e quindi giudicano e, peggio ancora, scelgono in base a impressioni superficiali. È meraviglioso poter accedere a così tante informazioni in una volta sola, ma il mio consiglio è di basare le vostre decisioni su un’esperienza il più possibile approfondita e completa. Di fare una cosa alla volta. Non fate nulla a metà, anche se all’inizio non vi sembra la cosa che preferite. È un’affermazione molto ‘anti-TikTok’ da parte mia, immagino, una volta che tutta questa cultura della ricerca di attenzione in quindici secondi è distruttiva. E non fate paragoni con nessuno. Ogni percorso è unico ed è uno spreco di tempo e di preziosa energia vitale lavorare per diventare migliori di qualcun altro. Forse dovremmo concentrarci sul diventare la versione migliore di noi stessi. E guardate le persone brave che lavorano intorno a te, ascoltate, meditate su ciò che sentite e vedete. Siamo condizionati a essere dei super realizzatori, quindi ci sono, invece, anche, momenti di passare in secondo piano e di lavorare per diventare degli esseri umani migliori. Un artista migliore potrebbe esserne la conseguenza.

Come affronta la pressione e il nervosismo prima di un’audizione o di una performance?

Concentrandosi sul lavoro da svolgere. I nervi vengono ogni volta che ci concentriamo sulla corrispondenza alle aspettative degli altri. Penso sempre a onorare il duro lavoro di tutti i partecipanti e a concentrarmi su questo. È tutta una questione di mentalità.

Qual è il Suo obiettivo principale come ballerino e coreografo per il futuro?

Assicurarmi di non servire “cibo marcio” ai miei ospiti, il pubblico. Essere in grado di guardare indietro alla fine della mia vita ed essere sicuro che alcune persone, dopo aver visto il mio lavoro, si siano sentite minimamente ispirate a tornare a casa e ad approfondire quella musica, quel libro, quella poesia o qualsiasi altra cosa che li ha toccati così profondamente, e di conseguenza possano essere portati a un punto ulteriore del loro sviluppo umano facendo ciò. Nell’antica Grecia i medici prescrivevano alcune opere teatrali per aiutare la guarigione di alcuni pazienti a seconda della loro malattia. Lo sciamano usa il suo tamburo per guarire, come musica ed è stato usato per elevare le persone nel corso della storia. Molti architetti, astronomi, pittori, poeti in passato hanno dedicato le loro opere per cercare di svelare qualche verità su noi stessi. Vedo me stesso desideroso di collegarsi a quel lignaggio e spero che altri continuino a farlo dopo di me. Purtroppo sembra che al giorno d’oggi non ci siano molti veri interessati a questo aspetto. Non si tratta di guardare al passato, ma di cercare la nostra essenza perduta e senza tempo. Se posso servire almeno a cercare di ricollegarmi a quel filone in cui la divisione della nostra esperienza in passato, presente e passato non ha senso, sarò soddisfatto.

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