Da Giotto a De Chirico, coinvolgente rassegna di opere pittoriche al castello Ursino di Catania

La mostra, che vanta un pregevole Caravaggio e altre belle tele, rimarrà sino a maggio; da visitare l’esposizione di vestiario d’epoca all’ingresso del maniero

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Se è vero, come ha detto Oscar Wilde, che “si può esistere senza Arte, ma senza di essa non si può vivere”, la mostra “Da Giotto a De Chirico: tesori nascosti”, attualmente in esposizione al castello Ursino di Catania, che da tempo è assurto al rango di luogo di mostre per eccellenza della nostra città, può dirsi rispondere bene a codesto desiderio dell’animo umano. Siamo stati in visita alla rassegna di oltre 150 quadri che documentano l’Arte pittorica italiana, dal secolo XIV al secolo XX; è una scelta ovviamente, data la vastità del periodo, il più importante forse della produzione mondiale, operata da Vittorio Sgarbi e inaugurata nell’ottobre 2017; rimarrà tra noi fino a maggio e forse si prolungherà, dato l’afflusso costante di visitatori.

Con l’ausilio, chi voglia -non nobis, che ci peritiamo con un pìzzico di presunzione, dopo anni di “frequentazione” del settore,  di farne a meno- di una modernissima audioguida, il visitatore viene immediatamente catapultato nella Firenze giottesca, di cui si ammira (ma è dei collaboratori di quel grande… così si afferma dubitativamente), una piccola e classica Madonna, per poi passare al XV secolo siciliano del superbo Antonello da Messina, del quale si espone una piccola tavoletta dipinta su due facciate raffigurante la Vergine e il Figliolo da un lato, l’Ecce Homo dall’altro; nella carrellata di dipinti che si inframmezzano alle permanenti collezioni del castello Ursino, ovvero la biscariana e quella benedettina (finalmente da un po’ di anni in massima parte visibili) tra cui celebre il tòrso di Imperatore trovato nella zona della chiesa di Sant’Agostino, e altre statue care all’illustre ed illuminato mecenate settecentesco catanese, incontriamo quello che più carpisce l’attenzione non solo nostra: una Madonna addolorata del Caravaggio che è la quintessenza del dolore, o per meglio dire del cupio dissolvi che una autentica opera d’Arte può trasmettere.

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La rassegna prosegue co’ secenteschi tra i quali l’impressionante Philipp Peter Roos detto Rosa da Tivoli, barocco, che raffigura demonici càpri, per giungere nel piano primo, all’Ottocento della scuola napoletana di Domenico Morelli, di Saverio Altamura, di Filippo Palizzi (ma non sònvi le sue celebri mandrie), sino a pochissimi pezzi novecenteschi, un poco attraente Guttuso, un semplice De Pisis, una tela di Fausto Pirandello e finalmente un quadretto piccino di De Chirico, per chiudere con il noto, ma decadente poiché nella chiusa di vita sua, autoritratto del “folle” Antonio Ligabue, del 1962.   Così, se l’Otto e Novecento delude alquanto, e il Settecento si può dire non pervenuto, emergono prepotentemente i secoli d’Oro della pittura italiana che è quanto dire europea, con il palermitano Pietro Novelli, di cui è esposta la grandissima tela col San Cristoforo che trasporta sulle spalle il Divino Bimbo, allegorìa del gigante (le vecchie religioni? i giganti di cui nàrra il Genesi?…) che traghettando oltre il fiume il Fanciullo, segna per molti lo spartiacque della Vita e della Morte; vi sono un pajo di ritratti del Ribera che prestano il fianco all’epopea viceregale sicula nonché una estasi di Santa Teresa alquanto sensuale.  Ma tutto si esaurisce in poche, pochissime interessanti seppure seducenti tele  e il visitatore comunque ammaliato dal fascino regale del “castrum Sinus ” o come vuole appellarsi il manièro costrùtto dal gran Federico nel XIII secolo, che era sul mare e vènne recluso dalla immane colata lavica dell’anno fatale 1669, prosegue nel percorso verso le tele della esposizione permanente, ammirando gli occhi fatali della donna catanese dipinti da Michele Rapisardi, o la serva “se fosse ricca” o la nipote con la tristezza fisa nel clarissimo sguardo.

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Le luci della mostra in esposizione sono il punto dolens, rimanendo estremamente basse e quasi costringendo all’audioguida, mentre il visitatore “maturo” che se ne priva, deve aver la vista dell’aquila onde poter leggere le didascalie, talora minuscole, altre volte proprio evanescenti. Peggio è nella esposizione permanente di monete dell’antica Catania, totalmente al bujo, sicchè si invita caldamente la direzione del maniero, che sappiamo attenta a tali problematiche, a provvedere al disagio evidente.

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Alla fine del percorso espositivo, una lieta sorpresa in mostra in questi giorni e, in tal caso, gratuitamente: alcuni abiti e indumenti intimi dei secoli XVII e XVIII ritrovati nei magazzini del castello e messi in bella vista: di ciò si deve dare atto alla dott.ssa Valentina Noto, direttrice del museo del maniero, la cui cura ha permesso di poter osservare alcuni oggetti un tempo di uso quotidiano, come degli stravaganti mutandoni, un tirabaffi, una camicia da notte, dei corpetti femminili e alcuni splendidi ventagli, autentiche opere d’Arte in miniatura. La moda è stata sovente Arte specie nei secoli ove non vi fu il dominio cerebrale dell’immagine; e mentre all’ingresso del castello, la colossale statua marmorea di Ignazio di Biscari, vestito da antico romano, veglia e sorveglia silente, rammentiamo il pensiero del novecentesco, nonché sulfureo, Henry Miller, secondo cui “l’arte non insegna niente, tranne il senso della vita”.

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