DAL LIBRO DI EL GRINTA “GIUSEPPE”, OLTRE LA LETTURA

El Grinta è nato a Venezia il 28 settembre 1958, Appartiene, però, ad una famiglia meridionale e, infatti, è cresciuto a Salerno. Qui, nel 1976, ha iniziato l’attività giornalistica per “Agire”, una rivista parrocchiale, conseguendo poi il primo premio per la narrativa ad un concorso letterario (Premio “Ortensio Cavallo”, 1977).

Dal 1980 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti. Nel 1982 si è laureato in Scienze Politiche, all’Università Statale cittadina. Nello stesso anno si è trasferito a Milano, dove ha cominciato a lavorare in qualità di consulente stampa per aziende del settore informatico ed alta tecnologia. Attualmente è impiegato come dirigente presso un’importante azienda italiana.

La grande passione per il racconto scritto, accantonata da quasi 26 anni, all’enorme dolore per la perdita di Giuseppe, il primo dei 3 figli scomparso suicida a Milano all’età di 21 anni il 25 marzo 2014, riappare con decisione ed appunto grinta nella sua vita, consentendogli di andare avanti e trovare la forza per rialzarsi.

Con GIUSEPPE questo padre riesce a ridare senso alla sua esistenza ed a “resuscitare” il figlio almeno in ispirito: scritto con l’unico obiettivo di ritrovare la sua compagnia, tra l’altro in coincidenza di una separazione dalla moglie avvenuta dopo 23 anni di matrimonio, e solo con la sommessa speranza di potere innalzare una cappella al Cimitero con i proventi conseguenti ai diritti di autore (“è la mia morfina” scrive già nelle prime pagine), nel giro di circa 2 anni  – la prima edizione è di maggio 2016 e la seconda di maggio 2018 –  di fatto, cambia vita.

GIUSEPPE, da agosto 2016 ad aprile 2019, ha ricevuto 21 riconoscimenti in tutta Italia; nell’anno scolastico 2017-2018, è stato presentato in 9 scuole in tutto il territorio nazionale ed in 14 nell’anno scolastico 2018-2019 ed una nell’anno scolastico 2019-2020: il modo di scrivere di El Grinta immediato, diretto e senza mezzi termini, che va oltre anche al Verismo stesso, ne fa una lettura piacevole e ricercata sia dalla critica che dal pubblico, rendendolo inconsapevolmente già “tagliato” per una traduzione cinematografica.

Sono consapevole che quello che scrivo oggi, avrei dovuto scriverlo all’inizio. Il fatto è che stavo male se non condividevo quest’ultima esperienza con i miei lettori seppure in ritardo… Brevemente, a chi mi legge ora per la prima volta, dico che ho iniziato a girare per le scuole per presentare il mio libro, GIUSEPPE, firmato con lo pseudonimo di El Grinta, da novembre 2017. Il romanzo è ispirato al suicidio realmente accaduto nella notte tra il 24 ed il 25 marzo 2014 a Milano, città in cui vivo, di Giuseppe, il mio primo figlio, all’epoca ventunenne (il primo di tre), quando cioè apre la finestra della sua camera, all’ottavo piano di un palazzo, e si lancia nel vuoto. Ho cercato di raccontare il mal di vivere di un essere che si è sentito sin dall’adolescenza intrappolato nel proprio corpo e, infatti, GIUSEPPE è anche la storia di Noemi, alter ego femminile che assume contorni definiti nella vita di noi genitori solo nel momento in cui si toglie la vita.

Ricostruisco la vicenda a ritroso, a partire dalla notte maledetta, attraverso un diario che auguro a chiunque di non scrivere mai. Le colonne portanti del narrato sono due: l’identità di genere e il disagio giovanile che porta all’autodistruzione. Continuando a girare, vorrei solo, pur senza minimizzare la mancata identità di genere, parlare di più di hikikomori e far capire che è l’isolamento che davvero ha ucciso mio figlio: l’identità di genere indefinita, infatti, fa stare male ma – fortunatamente! – non ammazza.

Credo di poter capire anche le ansie e le paure di quei dirigenti scolastici delle scuole medie, fortunatamente in minoranza, che, sentendo la responsabilità della formazione di ragazzi molto giovani, di fronte a un libro che può essere anche letto come un’induzione al suicidio da tale platea, o che, in qualche punto, tratta di una sessualità “diversa”, si bloccano. Confido nel futuro e, in particolare, che, in qualche modo, riesca a parlare soprattutto con i loro studenti, giovani come quello di cui narro di seguito, perché sono soprattutto loro che possono trarre maggiore giovamento dalla tragica esperienza di mio figlio e io non voglio lasciare indietro nessuno. Questo racconto è dedicato a loro.

A Lercara Friddi, Palermo, il 21 novembre 2017 inizio il mio “giro”, dal suo IISS, forte del fatto che la vincita del secondo posto ex aequo per la narrativa edita del Premio Piersanti Mattarella 2016 mi ha spalancato qualche porta nell’Isola.

Non ho uno schema preciso della presentazione (come non ce l’ho oggi a distanza di anni). Tutto va per il verso giusto lo stesso: andiamo in aula magna, dove i docenti hanno aiutato i ragazzi a preparare le domande da farmi, temendo che non ce ne fossero di spontanee (ma non è così). Tra l’altro, caso abbastanza singolare per le scuole, il docente referente del progetto ha trovato anche uno sponsor, la filiale di Mediolanum che acquista delle copie del libro per la biblioteca scolastica.

Ho iniziato agganciandomi alla lettera che ha scritto Giuseppe a mia moglie e a me, pubblicata nel romanzo fedelmente e integralmente, e che non so neanch’io per quale illuminazione, ho chiesto che venisse letta da qualcuno del posto, docente o studente è indifferente, purché lo facesse con passione, cosa che poi replicherò in tutte le presentazioni, anche quelle per le famiglie, da quella volta in poi.

La lettura di questo testo mi offre ottimi spunti per entrare nel vivo del narrato ma, in particolare, quando sono con i ragazzi, mi offre l’opportunità per stimolarli ad aprirsi con i loro genitori e a non tenersi tutto dentro, come faceva appunto mio figlio, qualunque sia il problema che covano.

 A questo punto, giova precisare che Giuseppe è stato un figlio difficile perché, oltre ai dubbi sulla sua identità al punto di diventare a volte Noemi, è stato un ragazzo chiuso in sé stesso, complicato fin dall’ infanzia e, benché amatissimo, noi genitori non sapevamo mai cosa fare per aiutarlo e sostenerlo veramente, con ogni nostro gesto che ci sembrava sempre inutile.

Segue il dibattito dove intervengono anche i docenti e la presentazione finisce.

Sto per andarmene quando si avvicina un ragazzo.

Già da lì, avrei dovuto capire che la presentazione “vera” inizia quando finisce quella per tutti… Comunque, si avvicina questo ragazzo che meglio sarebbe dire ragazzino visto quanto è giovane. Mi dirà che è del primo anno, ma, all’inizio, sembra addirittura delle scuole medie. Avevo capito che la scuola, per motivi di spazio, avesse fatto venire in aula magna solo le quarte (in realtà, lui stesso me lo confermerà, è così solo che ci sono state delle “eccezioni” e lui fa parte delle “eccezioni”).

“Ma come faccio a parlare con mio padre? Lui è molto severo.”

Spara la domanda senza perdere tempo.

Rimangono senza parole… Il ragazzino non solo mi ha ascoltato, ma sono entrato a fondo dentro il suo cervello e ora vorrebbe conservare le mie esortazioni ma – giustamente! – adattandole alla sua realtà.

Sinceramente, non pensavo che si arrivasse a questo e non ero minimamente preparato a un’evenienza del genere.

Lui mi incalza, però. Non mi dà quartiere.

“Sì è proprio molto severo.”

Un'”aderenza” così forte a quello che dico la vedrò solo dopo qualche anno e sempre in Sicilia, a Mazara del Vallo per l’esattezza, dove, sempre durante la presentazione “vera”, cioè alla fine di una per i genitori e le famiglie, verranno tre suore che erano nel pubblico, meglio mi “circonderanno tre suore”, a prendere una copia del libro, chiedendo l’autografo e mandandomi in tilt perché non so come fare una dedica tripla!

Ad ogni modo, ritorniamo a Lercara Friddi… Tento una difesa d’ufficio e dico:

“Hai provato a parlare?”

“Sì ma non si può…”

Capisco che il ragazzino è portatore di chissà quali problemi – per esempio non parla della mamma – e non voglio deluderlo. Sono in crisi: vorrei dire che devo andare, che non posso risolvergli il problema, che, di fatto, ho parlato per tutti meno che per lui che poi è quello che deve averne più bisogno, tutte cose vere, ma neanche voglio farlo sentire ancora più solo e disperato e proprio in quel preciso momento in cui ha cominciato a intravedere una strada per i suoi problemi…

Credo che l’illuminazione mi venga direttamente dal mio “nuovo” Angelo Custode rectius l’anima di mio figlio Giuseppe, perché le parole mi vengono spontanee e parlo con una scioltezza che non mi appartiene.

“Senti, se il tuo papà è così severo, lascialo stare. Non hai un “prof” con cui ti trovi di più o anche un “don” con cui puoi confidarti?”.

Sorriso di illuminazione:

“Anche un compagno di scuola va bene?”

“L’ideale sarebbe un adulto, ma se non lo trovi, va bene anche lui”.

Il ragazzino se ne va contento e rinfrancato: pensa che gli ho risolto un problema, ma, in realtà, l’ha risolto lui a me, perché, imparata la lezione, da lì in poi, durante le mie esortazioni ai ragazzi ad aprirsi, giocherò di anticipo e dirò subito del piano B di fronte a un’obiettiva difficoltà di dialogo con i propri genitori. Anzi, grazie al passaggio di qualche dirigente scolastico illuminato che mi farà notare che, a volte (spesso!), le famiglie non ci sono proprio, arricchirò il repertorio dei possibili adulti con cui dialogare, inserendo anche gli psicologi dello Sportello Ascolto, dove è stato istituito.

Chissà che fine avrà fatto il ragazzino di quella volta. Chissà come sarà diventato in questi anni. Quanti ragazzi ai quali ho parlato dopo di lui, gli devono essere grati per l'”aggiustatina” che mi ha dato?

Qui mi fermo.

Vorrei solo aggiungere che non so perché ho voluto scrivere un libro su Giuseppe. Scrivere è stata la mia morfina, unica droga capace di anestetizzare un dolore davvero terrificante. Alla fine, è venuta fuori una testimonianza verace che, innescando la riflessione, può essere un ausilio per tutti quei ragazzi che, come Giuseppe, affrontano problemi più grandi di loro e che non riescono a gestire. E, naturalmente, per tutti quei genitori e docenti che vogliono stare vicino ai loro figli ed allievi ed accettarli e amarli per quello che sono.

All’inizio, quando ho cominciato a scrivere, non avevo alcun obiettivo se non quello di commemorare mio figlio, ma, con il passare del tempo, ho capito che avevo una missione…

Di recente, forte dell’esperienza maturata parlando con gli studenti nei miei giri per lo Stivale, ho elaborato un nuovo testo dove le “telecamere” sono puntate solo su Giuseppe e Noemi, e alla fine di questo mese arriva in libreria “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli” di Marco Termenana – anagramma del mio vero cognome – edito da CSA, di Castellana Grotte, Bari.

In ogni caso, in bocca al lupo, Giuseppe Noemi, figli* mi*!

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