Annamaria Pisapia, il “cuore” guerriero/dolce della Napoli antica. Il suo primo libro presentato di recente: “Mal trattati… e partirono p’ ‘etterre assaje luntane”

L’immigrazione non ha soltanto riguardato il Nord Africa o l’Europa orientale; infatti, crediamo di parlare di “loro” e parliamo di noi. L’immigrazione è come uno specchio: più lo guardiamo, più ci rimanda l’immagine della nostra società e della nostra vita.

Paesi come il Sud dell’italica penisola sono ancora “vittime” di una cosiddetta immigrazione interna: molti giovani ancora oggi emigrano dal Sud Italia verso il Nord alla ricerca di un lavoro (lecito e giusto per ogni essere umano che nasce in uno stato di povertà migliorare la propria vita). 

È da aggiungere poi che gli spostamenti di popoli da una terra ad un’altra hanno definito la storia umana per migliaia di anni: è stato un fenomeno sempre presente che ha interessato a volte singole famiglie, a volte intere popolazioni. Da millenni l’uomo si è spostato da un territorio all’altro in cerca di cibo: si pensi, inoltre, alle migrazioni degli ebrei dall’Egitto verso la Terra promessa o a quelle che sono state le imponenti invasioni barbariche che hanno interessato l’Europa del V secolo e che, pian piano, hanno provocato il crollo dell’impero romano d’Occidente. Tra la fine del XIX secolo e la fine del XX anche milioni di persone hanno lasciato l’Italia per andare a vivere all’estero: le mete principali sono state l’America Latina e gli Stati Uniti.

Parliamo oggi del primo libro  che ha scritto la napoletana (orgogliosa di esserlo) Annamaria Pisapia. Titolo: “Mal trattati …e partirono p’ ‘e tterre assaje luntane” uno sguardo obliquo sulle tematiche dell’emigrazione di uomini e donne nate nel poverissimo (allora) sud Italia. Il  migrante non è solo colui che porta con sé un vissuto diverso, ma anche chi pone all’interno della società italiana alcune questioni fondamentali sul proprio passato nonché sulla propria identità.

Perché ha scritto, gentile Annamaria, questo libro e che reconditi significati vuole stigmatizzare?

“Il titolo Mal Trattati, è nato ancor prima del libro e su di esso si è sviluppato il testo. Posso dite che ha preso forma in un crescendo, alla luce di quelle profonde difficoltà che innegabilmente vive il Sud della penisola italica: una condizione socio-economica ricollegabile alla politica coloniale in cui è tenuto. Partendo dall’assunto che nessun paese nasce sottosviluppato, come gravato da un “peccato originale”, ne consegue che lo diventi sotto la spinta di azioni che lo rendano tale. A dirlo fu Andrè Gunder Frank, sociologo ed economista, che elaborò la “teoria della dipendenza”, sintetizzandola in “Sviluppo del Sottosviluppo, due facce della stessa medaglia. Frank dimostrò che la ricchezza di un paese è sempre legata all’arretratezza di un altro (il modello trova applicazione non solo tra uno Stato e l’altro, ma anche all’interno di uno stesso paese, come colonia interna), ed è determinata dal drenaggio di risorse da un territorio verso l’altro. Egli sosteneva che non fosse possibile elaborare una politica di sviluppo per quelle aree che subiscono il sottosviluppo senza aver studiato la loro storia passata e cosa l’abbia generato. In pratica Frank avalla quelle azioni che molti di noi portano avanti da decenni e prima ancora grandi meridionalisti come Maddaloni e Nitti e molti altri: una certosina ricerca storiografica sulle cause che determinarono l’annientamento del Regno delle Due Sicilie e l’annichilimento dei suoi regnicoli. Insomma, quel popolo vive al presente un pauroso sottosviluppo in funzione del benessere che riesce a produrre per l’area Nord dello stesso paese, in conseguenza dell’instaurarsi di un modello coloniale che si autoalimenta da 162 anni. Comunque, la spinta per scrivere questo libro non si è determinata tanto sull’essere consapevole di vivere sottoposti a colonizzazione, che quasi più nessuno disconosce, quanto piuttosto nel rendermi conto di come questa condizione sia vissuta da molti: una presa d’atto. E’ come si ci trovassimo in quella che io definisco “stagnazione coloniale”. Per uscirne c’è bisogno di un’azione d’urto: vivere il dolore, attraversarlo… un passaggio che ho affrontato anche io, trent’anni orsono, e tutti quelli che hanno compiuto un processo di decolonizzazione. C’è bisogno di guardare tutte le ”tessere” che compongono questo “gioco”, simile al domino, ed è quello che ho provato a fare in questo libro”.

Del Regno delle Due Sicilie, raccontaci queste tue esperienze?

“Grazie per questa domanda. Ho cooperato con scrittori, giornalisti, docenti del mondo meridionalista nel per la stesura del libro “Il grande libro del Regno delle Due Sicilie”. Tra i molti argomenti che mi furono proposti ne scelsi due “Plebiscito” e “Piemontesizzazione”, a cui ne aggiunsi un terzo che non era presente nella lista “Omeopatia nel Regno delle Due Sicilie”. L’omeopatia fece la sua prima comparsa nella penisola italica a Napoli nel 1821. All’arrivo delle truppe austriache, che erano accorse in aiuto di Ferdinando I per sedare i moti del 1820-21, era usanza che al seguito dell’armata austriaca viaggiassero un numero di ufficiali medici tra allopatici e omeopati e tra questi spiccava il dottore Necker uno dei più stimati omeopati. La nuova pratica medica destò vivo interesse nel re Ferdinando I che intese diffonderla in tutto il Regno in particolar modo in Sicilie e a Napoli servendosi di grandi luminari come il professore Cosimo de Horatiis che, malgrado la sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, in seguito fu nominato dallo stesso re chirurgo maggiore dell’ospedale di San Giovanni in Carbonara riuscendo ad aprire anche una scuola di Anatomia chirurgica. Nel contempo prestava la sua opera all’ospedale degli Incurabili. Il libro “Pagine di Seta” fu un’idea di Pino Aprile il quale vedendo mio marito intento a distendere dei foulards riproducenti i vari primati del Regno, esclamò: “Sembra che tu stia sfogliando delle pagine di seta, perché non ne fai un libro?”. L’idea piacque al mio sposo che la mise in pratica questo libro ”gioiello”. Le pagine sono delle pochettes di seta (miniature dei foulards) accompagnate dal racconto della storia del Regno. Il testo fu tradotto da me in napoletano e fu tradotto anche il lingua Inglese. Fu un lavoro coinvolgente!”.

Questo tuo recente libro nasce per parlare dell’emigrazione. Che contributo reale hanno fornito alle città di origine chi è emigrato?

“Questo libro verte in particolar modo sull’emigrazione, perché essa risulta essere una tessera fondamentale di quel “gioco” cui ho fatto riferimento poc’anzi, che a mio avviso non è stata trattata come andava fatto. L’analisi e i racconti dei discendenti di quegli emigranti sono una chiave di lettura importante per noi. In milioni partirono e tutti avevano nel cuore la voglia di trovare lavoro. Era usanza lanciare dal bordo della nave in partenza dei fili di stoffa che simboleggiavano la speranza di una vita migliore ed il desiderio di riunire un giorno anche i restanti membri della famiglia rimasti a terra. In quanto al loro contributo, è certo che con le loro rimesse contribuirono notevolmente a risollevare l’economia italiana. Il Governo favorì in ogni modo l’emigrazione, salvo disinteressarsi completamente della sorte di milioni di povere anime che subivano violenza e abusi in territorio straniero. Dopo lungo tempo l’eco di quei soprusi riuscì ad arrivare in Parlamento e alcuni intesero porre un freno a quella che era una vera ”tratta umana” in cui agenti senza scrupoli inducevano quanti ormai versavano nella miseria più nera ad emigrare. La prima legge sull’emigrazione (legge n. 5866 del 30 dicembre 1888 fu il primo testo organico firmato dal politico Francesco Crispi) fece molto discutere poiche’ non modificò molto la situazione e risultò un’ennesima fonte di lucro dello Stato su quei poveretti”.

Lei, Annamaria, si è anche recata a New York anche per conoscere italoamericani. Le loro storie e le loro avventure sono state da lei raccolte come testimonianza?

“Sì, vado spesso a New York ho rivisto gli amici italoamericani. E’ stata proprio questa la spinta che mi ha indotta a scrivere questo libro. Non immaginavo che in loro vivesse ancora un “dolore familiare” ereditato dai loro avi (molti sono americani di terza generazione) che produce tuttora profonda commozione. E i loro racconti ne sono una testimonianza”.

I racconti che leggeranno i lettori sono anche in un certo senso “legati” alla Massoneria, perché?

La Massoneria la fa da “ladrone” in questo libro. Al “potere massonico” si deve l’unità d’Italia. Era necessario far emergere dalle tenebre quel progetto mefistofelico. Chi avrà modo di leggere il libro potrà notare che ripeto spessissimo, come un mantra, le parole massone o massoni, perché trovo che portare l’attenzione sugli interpreti principali di questa tragedia chiamata unità dando nome e cognome ad ognuno di essi, sia un esercizio che aiuti a liberarsi dal loro condizionamento mentale, che alcuni hanno definito pedagogia patriottica: utilizzata per la costruzione di una “religione civile”.

La Sicilia da sempre è fonte d’ispirazione di poeti, scrittori, musicisti artisti in generale. Anche lei ha “coinvolto” la mia amata terra in questo suo libro. In che maniera?

“Non so se tutti i siciliani siano consapevoli del fatto di aver subito le piu’ feroci nefandezze durante tutto il Risorgimento ma anche sul finire della seconda guerra mondiale e nel dopoguerra (confesso di aver provato una profonda rabbia nel riportare questi atti esecrabili). Questo popolo siculo, ancora oggi, insieme al resto del Sud, vive una condizione di profonda difficoltà economico-sociale. Era impossibile non prendersi cura della Sicilia e riportare quelle “ferite”.

Cosa si auspica per la “sua” Napoli. Qual è il difetto più grande dei napoletani? Qual è il pregio più grande dei napoletani?

“Il libro, che non è focalizzato su Napoli, può essere visto come uno strumento per liberarsi delle “zavorre mentali” in cui sono costretti gli abitanti del Sud della penisola italica. E’ un viaggio verso la decolonizzazione, che ha interessato anche me, e va affrontato solo per amore della propria terra, dei propri figli troppo spesso destinati ad emigrare. Dunque, per Napoli, così come per tutto il Sud, non posso che auspicare il meglio: il suo riscatto! In quanto a difetti e pregi dei napoletani: sui primi ne parlano a sproposito ininterrottamente da 162 anni (alimentare quella narrazione negativa era necessaria ai conquistatori ai fini di uno spostamento delle loro colpe), sui secondi lascio che a parlare siano le testimonianze di coloro che riconoscono di essere stati “preda di pregiudizi” e che hanno cambiato idea dopo avere visto le bellezze naturali della nostra terra, dopo avere gustato i piatti tradizionali ed essersi informati sulla vera storia del nostro Sud”.

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