Il mago Lavia irrompe al “Bellini” di Catania con una mirabile versione felliniana de “I Giganti della montagna”

Certa critica abborracciata e ideologica rimprovera al grande Luigi Pirandello i rapporti che ebbe col regime fascista (richiesta della tessera del PNF, accettazione della nomina ad Accademico d’Italia), dimenticando che in quel ventennio in Italia fu istaurato un regime, proprio come quelli che furono in Germania, per molto più tempo in Unione Sovietica, oggi in Cina e nella Corea del Nord.

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Pirandello non credo nutrisse interesse per la politica, forse cercava di proteggere la sua famiglia, afflitta da rovesci di fortuna e malanni, e la sua attività di drammaturgo. Considerazioni riemerse in occasione della messa in scena per il Teatro Stabile di Catania, della sua grande incompiuta “I giganti della montagna”.

Testamento spirituale e artistico di Luigi Pirandello, il testo teatrale I giganti della montagna è un’opera incompleta, complessa e difficile da mettere in scena, permeata profondamente dalla poetica visionaria dello scrittore siciliano.

La pièce racconta: uno sparuto gruppo di strambi individui vive asserragliato in una villa su un’altura imprecisata, dove giunge una compagnia di teatranti ridotti alla miseria, tra i quali spicca Ilse, la “contessa”, bellissima donna decisa a portare in scena l’opera che un giovane poeta scrisse per lei prima di impiccarsi a causa del suo rifiuto amoroso, ovvero La favola del figlio cambiato; tra onirismo e visioni s’insinua l’ombra dei potenti Giganti della montagna, che vivono nei pressi della strana “comunità”, sulla quale incombono e condizionano anche se fisicamente assenti.

Il testo potrebbe essere scaturito in séguito a un singolare episodio: “La favola del figlio cambiato”, lo spettacolo che, ne I Giganti, la Compagnia della Contessa vorrebbe rappresentare e tutti i teatri rifiutano, è un testo teatrale di Pirandello, tratto come sempre da una sua novella, che non poté rappresentare in quanto l’opera fu sequestrata per alcune scene non consone agli ideali del regime fascista.

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Nonostante tesserato e accademico, Pirandello veniva guardato dal regime con sospetto “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”, come recita la motivazione del premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1934. Anzi, proprio come si fa col cagnolino quando fa la pipì dentro casa, gli fu imposto di attendere alla regia de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio: quello sì, spregiudicato dissoluto e perverso, con il regime andava alla grande!

Va da sé che stiamo parlando di due grandi delle lettere e delle scene, motivo per il quale questa ardita speculazione si ferma qui, pur se aiuterebbe a leggere e comprendere questo testo altamente simbolico e metaforico: con I giganti Pirandello rappresenta quella classe sociale, incolta arrogante e presupponente, che si stava collocando ai vertici della scala sociale, incapace di comprendere il valore rivoluzionario dei suoi testi, che osteggia.

Nella nota di regia dell’edizione andata in scena allo Stabile, produzione Fondazione Teatro della Toscana, Gabriele Lavia (Cotrone) si è presentato indossando una livrea da clown, da maestro di casa della villa degli Scalognati, abitata da personaggi che assistono allo psicodramma della contessa/capocomico e si agitano inconsapevoli di essere solo fantocci la cui sorte è decisa e segnata dai giganti.

Grande nuova edizione di questo difficile testo che il pubblico, accorso numeroso al teatro “Bellini”, poiché la scena di Alessandro Camera non poteva essere contenuta al “Verga”, ha applaudito calorosamente. Applausi interrotti da Lavia con una nota malinconica nella quale ha ricordato Nellina Laganà, l’indimenticabile attrice catanese che doveva interpretare la Gricia spentasi pochi giorni prima di arrivare a recitare nella sua Catania.

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