Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia costituzionale, nel bicentenario della nascita

Fu il personaggio attorno a cui si costruì l’Unità italiana: guerriero per scelta, manifestò sempre grande amor patrio

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L’emergenza virale in corso non ha permesso, come sarebbe in ogni caso accaduto, di ricordare pubblicamente il bicentenario della nascita, quattordici marzo del 1820, del Re Vittorio Emanuele II, Padre della Patria (come sta scritto sulla sua tomba al Pantheon romano, ove è vegliato dalle Guardie elette a questo onore) nonché fondatore dello Stato italiano unito, in concorso con gli altri attori essenziali di quei giorni esaltanti che la Storia ha nominato Risorgimento, ovvero Giuseppe Garibaldi e Camillo di Cavour (con Giuseppe Mazzini, l’escluso idealista che pure contribuì all’idea nazionale).    Il gran Re, la cui statua equestre s’erge al Vittoriano e di cui ogni città grande e piccola d’Italia ricorda il nome attraverso strade piazze scuole ospedali istituti a lui dedicati, avrebbe meritato per tanti motivi un fasto maggiore. E’ stato celebrato, come tutto ormai accade, sul web: ma anche la Repubblica, fino all’anno scorso nell’anniversario della proclamazione del Regno d’Italia quindi dello Stato nazionale (17 marzo 1861) ha sempre inviato al Pantheon una corona d’alloro con un rappresentante del Governo in carica: le nostre comuni radici sono quelle, il tricolore nasce stemmato, poco importa che nell’attuale lo stemma sabaudo non vi sia, è in ogni caso la nostra bandiera e durante le grandi guerre del Novecento come per tutto il secolo XIX sul tricolore ornato della bianca croce di Savoja, giurarono pugnarono e morirono generazioni di nostri antenati, a cui sempre dobbiamo amore onore e rispetto, per averci lasciato una nazione libera forte e orgogliosa di se medesima. Nel 2011, festeggiandosi il 150° dell’Unità italiana, l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non mancò di onorare la memoria del Re Galantuomo sia all’Altare della Patria che al Pantheon: in quell’occasione erano presenti anche il Principe di Napoli SAR Vittorio Emanuele IV con la moglie Marina ed il figlio Emanuele Filiberto, in rappresentanza della Famiglia Reale sabauda.

VE e Garibaldi

Ma chi era Re Vittorio Emanuele II, il Sovrano che all’ingresso in Roma nel 1870, di cui quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario, disse: “finalmente ci siamo!”‘?  Colui che dopo mille e cinquecento anni fece cadere il potere temporale dei Papi e rese il sogno dell’Urbe laica, come nella antichità era, realtà?

Quasi una veloce immagine fotografica, in ‘effetto seppia’, tracciamo qui un ricordo del Sovrano che costituzionalmente vòlle e realizzò l’Unità italiana. La Storia lo definisce, ed era anche la sua preferita descrizione, “il primo soldato dell’indipendenza italiana”: poiché animo di soldato ebbe, soldato si sentì sempre, soldato fu nella vita politica, nella vita privata, nello stile. Assunto il potere ventinovenne nelle infauste giornate della prima guerra d’indipendenza,  dovette negoziare col celebre Radetzski l’armistizio detto di Salasco (1849): e tuttavia, adeguandosi e condividendo le aspirazioni del padre Carlo Alberto il quale concedeva un anno circa prima, al Regno di Sardegna la carta costituzionale detta anche Statuto Albertino, mantenne l’ordinamento e non volle, come chiedevano gli austriaci e tutte le case regnanti italiane, dai Borbone (che passano alla storia per aver giurato e spergiurato tante volte sulle costituzioni, quindi sull’anelito di libertà dei popoli: perciò sono esecrati dai contemporanei e mal ricordati, nonostante un certo neoborbonismo, dai posteri) al Papa avevano fatto, revocare lo Statuto, quindi la garanzia che la monarchia doveva essere moderna, subordinata cioè al Parlamento: questo aspetto è necessario illuminare nettamente in particolare ai giovani d’oggi. Che l’Italia unita dalla monarchia di Savoia nasce costituzionale, con un Re che sceglie di mettere la sua figura millenaria tre passi indietro alla volontà delle masse, ovvero rispettoso del Parlamento. E il ‘dominus’ di quel Parlamento, il quale doveva sanzionare a palazzo Carignano di Torino la nascita del Regno d’Italia, fu un nobile uomo, Camillo Benso Conte di Cavour.

VE II

Vittorio Emanuele era donnaiolo, spendaccione, simpatico, non parlava bene, anzi in modo pessimo, l’italiano preferendogli il francese sua lingua originaria: seppe barcamenarsi con Napoleone III nei giorni della seconda guerra d’Indipendenza, allorché l’Imperatore consentiva, o non impediva, l’unificazione degli stati del Regno delle due Sicilie, mercé l’opera indispensabile del “guerrigliero” Garibaldi (nominato Generale già dei Cacciatori delle Alpi ed a capo dell’Esercito Nazionale), segretamente sostenuto e foraggiato da Re Vittorio, molto meno dal Cavour. Gli fu però facile codesto abboccamento col sovrano francese: entrambi avevano la medesima amante, la quale era la cugina del Bonaparte e moglie del più fidato consigliere del Re, Urbano Rattazzi. Re Vittorio col suo carattere irruento, si guadagnò le simpatie di quelle potenze, Gran Bretagna e Francia, che ebbero parte importante nel nostro processo unitario. Lo descrive in termini precisi, conferendogli l’Ordine della Giarrettiera, nel 1855 la Regina Vittoria: “E’ così franco, aperto, giusto, leale liberale e tollerante, e con tanto buon senso. Non manca mai di parola e si può sempre contare su di lui. Ma è selvaggio e stravagante: ama le avventure ed i pericoli, ed ha un fare strano, conciso, rozzo, una esagerazione di quel modo brusco di parlare…. Più che una figura dei giorni nostri, egli è davvero un cavaliere del medioevo”. Si notino i due passaggi essenziali della prosa vittoriana, che tanto pesarono sulla politica italo-inglese dei decenni successivi: sul Re, e quindi sulla Casa Savoia, si può sempre contare poiché è di parola: e Vittorio è una figura da epica romanzesca. Su tale uomo certo assolutamente necessario alla Patria nella metà del secolo XIX, imperniavasi l’Unità italiana.

Senza alcun dubbio, egli ebbe le sue debolezze: la più grave, ma comprensibile, fu una certa rivalità per il personaggio più popolare d’Italia, Garibaldi: non solo lo fece impallinare in Aspromonte per non creare problemi a Napoleone III, considerato che anche su impulso suo (gli ordini alla squadra navale militare di Catania di imbarcare i ribelli garibaldini e portarli in Calabria, furono dati dalla Casa Reale col concorso della onnipresente Frammassoneria, in quelle giornate dell’agosto 1862) l’Eroe era ridisceso in Sicilia per marciare ex novo verso Roma; ma anche due anni dopo, quando il Generale era in visita più che trionfale a Londra, impedì al nostro ambasciatore di partecipare alle autentiche ovazioni che tutti, dai Windsor al popolino, tributavano al liberatore della Patria (ed allora Gran Maestro della Massoneria nazionale).     Ma Vittorio Emanuele, pur non accettando le ribellioni del novello Regno italico (dopo la rivolta palermitana del 1866 non esitò ad appoggiare il pugno di ferro della repressione), ebbe sempre il buon senso, pur tentando spesso di scavalcare –ed a norma di Statuto poteva, ma de facto non accadde- il Parlamento, di attenersi a quel dettame secondo cui egli il 17 marzo 1861 fu proclamato Re d’Italia: “per grazia di Dio e volontà della Nazione”: una formula che all’epoca faceva inorridire le altre case regnanti d’Europa, poiché il Re tale deve essere, si pensava, per diritto divino e non socialisticamente, installato in trono dal popolo. Invece Casa Savoia sin dal 1861 unificava l’Italia in modo che oggi si direbbe “democratico” (le virgolette son dovute), ma senza alcun dubbio assolutamente moderno per i parametri dell’epoca: in stile british, come del resto era nei voti.

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Il primo Re capì subito chi erano gli italiani, questo germinato amalgama di popoli parlanti lingue diverse e con diversissime storie: “ci sono due soli modi di governare gli italiani: con le baionette o la corruzione; non capiscono cosa sia un regime costituzionale e sono del tutto inadatti ad esso”: queste parole egli le disse all’ambasciatore inglese Paget nei giorni (1867) di Mentana riferendosi agli uomini politici del tempo: appaiono illuminanti per l’oggi e per comprendere la mentalità dell’uomo. Ma del fatto che la Monarchia era nata con la stella, anzi il pentalfa (inciso nelle monete del tempo) della modernità, ne era ben conscio: anche il suo successore, Umberto I, lo affermò subito dopo l’assunzione al trono: “La monarchia in Italia o sarà democratica o non sarà”.

Vittorio Emanuele II moriva nel gennaio 1878, a 57 anni per uno dei suoi frequenti attacchi di malaria: pochi giorni dopo lo seguiva nella tomba l’arcinemico Pio IX confinato in Vaticano. Immediatamente un gruppo di reduci e veterani delle guerre di indipendenza decideva di vegliarne la tomba: nascevano le Guardie al Pantheon.  Fu universalmente compianto: aveva scelto per la Nazione che ebbe dalla Divinità la sorte di reggere, la via della modernità e del progresso, nel solco della carta costituzionale la quale significa libertà del popolo: l’attuale costituzione repubblicana del 1948 altro non è che figlia di quella storia. Tale è l’autentico percorso dell’Italia unita. Con le parole di Giuseppe Garibaldi: “L’Italia una ed il Re Galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione e della grandezza e prosperità della Patria”. Onoriamo la repubblica e amiamo l’Italia che sentimentalmente, rimane monarchica.

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