Torna in scena a Catania “L’importanza di chiamarsi Ernesto”

Un messa in scena fedele al testo, ma innovativa nelle scelte sceniche volute dallo stesso regista.

L’irresistibile pièce di Oscar Wilde “L’importanza di chiamarsi Ernesto” …  o di essere onesto? Debutta al Teatro “Verga” di Catania, la vis comica di quella che è stata definita la più bella commedia di tutti i tempi, anche se sono trascorsi 120 anni, e corre sul filo di questa ambiguità verbale con la brillante e briosa regia di Geppy Glejieses, interprete principale del ruolo evocato nel titolo, mentre l’eclettica e deliziosa Marianella Bargilli veste i panni maschili di Algernon, quest’ultima in un inconsueto (ma riuscito) ruolo maschile di particolare rilievo, e con la partecipazione dell’ineguagliabile  Lucia Poli. La traduzione è quella pluripremiata di Masolino D’Amico.

“The Importance of Being Earnest” è infatti basata su un gioco di parole, intraducibile nella nostra lingua: in inglese il nome proprio Ernest si pronuncia esattamente come l’aggettivo earnest, onesto!

“The Importance” debuttò al St. James’s Theatre di Londra il 14 febbraio 1895; da quel momento la commedia non conoscerà crisi, nonostante le vicende legali in cui sarà coinvolto l’autore, che da lì a poco verrà imprigionato per avere violato le regole morali in materia sessuale. Non è un caso che l’ultimo lavoro teatrale del drammaturgo irlandese metta in luce tutta quella cura dell’apparenza e della forma dell’alta società vittoriana: con una certa eleganza si rappresenta un mondo aristocratico che Oscar Wilde derideva con le sue battute al vetriolo, ma del quale non avrebbe saputo fare a meno! Molto attuale la frase “l’essenza stessa di ogni amore è l’incertezza”.

L’Ernesto del titolo è John Worthing, che si fa chiamare così solo perché questo è il nome preferito della fanciulla che corteggia. Nel frattempo, anche il suo amico Algernon si inventa una nuova identità per conquistare la bella Cecily. 

In un elegante salotto vittoriano in cui troneggia un enorme martirio di San Sebastiano di Guido Reni, Algernon Moncrieff attende l’arrivo di sua cugina Gwendolen e di Lady Barcknell  sua facoltosa zia, per il tea delle cinque, quando viene interrotto dall’arrivo dell’amico Ernest alias Jack Worthing. Worthing dichiara all’amico la sua ferma intenzione di fare la sua proposta di matrimonio all’affascinante cugina di Algernon, Gwendolen. Mentre i due parlano delle possibilità che ciò accada, il campanello, suonato in maniera wagneriana, avverte i due dell’arrivo dell’ irruenta Lady e la figlia.

Dopo aver fatto la sua proposta di matrimonio, Jack dovrà confrontarsi con la terribile Lady che, taccuino alla mano, gli farà una serie di domande per vedere se inserirlo nel suo elenco dei possibili generi. Ma la tragica notizia dell’assenza di entrambi i genitori unita al fatto di essere stato “trovato” in una borsa da viaggio  lo rendono un partito indesiderabile. Soltanto grazie a una serie di fortuite quanto improbabili circostanze, potrà nel finale sposare la sua Gwendolen.

Da qui, con un ritmo narrativo molto elevato, scaturiscono una serie di gag, soprattutto verbali, e arguzie letterarie che attraversano indenni il tempo che passa, con una graffiante critica sociale alla decadente società vittoriana mascherata da continui paradossi e tutti quei giochi di parole che sono il marchio di fabbrica di Oscar Wilde.

 

La produzione realizzata da Glejieses, un fiore all’occhiello del panorama teatrale italiano, nasconde sotto le tovaglie di merletti che sfiorano il pavimento tutto il marciume di quella società vittoriana, forse non tanto diversa dalla nostra, dove, con la crisi di valori, l’opulenza e l’indolenza, l’apparire prevaleva sull’essere.

Il germe della crisi Glejieses lo semina: il S. Sebastiano di Reni, perfetto nelle sue forme è trafitto, il bosco della “Manor House” è un bosco in continuo movimento, inquietante, quasi sinistro.

Una pièce all’insegna della brillantezza e delle battute taglienti con un ottimo cast che dà vita ad un’alchimia perfetta, ma anche le figure di contorno contribuiscono all’affresco completo, come Miss Prism o l’ineffabile maggiordomo insieme ad altri nomi di spicco come Renata Zamengo, Orazio Stracuzzi, Valeria Contadino e, ancora, Giordana Morandini e Luciano D’Amico.


 “Dall’altra parte del Vecchio Continente, il genio di Oscar Wilde esaltava “l’importanza di non fare niente, sottotitolo del suo saggio “The critic as artist”. Siamo nell’ostentata ricchezza in cui l’unica preoccupazione è la decisiva importanza di un nome “Earnest” e la pigrizia è l’unico divino frammento dell’esistenza degli dei che il paradiso ha lasciato all’uomo”. Continua Geppy Glejieses “da autore sociale che contrasta matrimonio, famiglia e proprietà privata ed esalta l’arte come strumento di propaganda e di lotta, si passa alla totale noncuranza”.

Apprezzati i riusciti costumi di Adele Bargilli tripudio di merletti di veli leggiadri, cappelli, piume che si accostano con una elegia di forme in sinergia al contesto vittoriano: i corpi si perdono nelle stoffe tondeggianti, negli ombrelli con frange e pizzi, in un tripudio cromatico acceso da luci nette di Luigi Ascione e le curate musiche di Matteo D’Amico. Il regista Geppy Glejieses punta su uno spazio costruito con eleganza in sinergia con i costumi dando risalto alla capacità degli attori di dare corpo alle situazioni attraverso la forza della parola. Secondo una tecnica lungamente affinata,  personaggi si descrivono e si commentano in prima persona, sorprendentemente Glejieses adotta dei toni comici intellettuali, in linea con l’aforisma di Wilde“Dovremmo trattare molto seriamente tutte le cose frivole e con sincera e studiata frivolezza tutte le cose serie della vita”. Spettacolo di alto livello, splendidamente recitato, fin troppo divertente, quasi compiacente nei confronti del pubblico che attraverso buffi “tormentoni” provoca applausi e risate.


 
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