L’amianto non ha risparmiato neanche il Das

Grazie a uno studio dell’Ispo e dell’Università di Firenze, pubblicato sulla rivista “Scandinavian Journal of Work Environment and Health”, è stato confermato che il Das prodotto negli anni Settanta conteneva amianto.

Poteva il Das, noto panetto di argilla in voga negli anni Settanta e utilizzato da generazioni di bambini, insegnanti, artigiani e artisti, essere esonerato dalla contaminazione da amianto? Certo che no, nemmeno la famosa pasta modellabile è stata risparmiata. Studi condotti dall’Ispo, Istituto di prevenzione Oncologica dell’Asl di Firenze, e dall’Università di Firenze, pubblicati sulla rivista “Scandinavian Journal of Work Environment”, parlano chiaro: le fibre del materiale letale venivano utilizzare per creare il Das che originariamente nacque come miscela in polvere da diluire con l’acqua e poi si pensò a un composto già pronto. La nota pasta modellabile venne prodotta in uno stabilimento industriale italiano a Lastra A Signa, nella periferia di Firenze, la Adica Pongo che chiuse  battenti nel 1993.

Gli studi hanno dimostrato che i panetti di argilla hanno rappresentato un rischio per un’ampia fetta di consumatori tra il 1963 e il 1975. In quegli anni vennero vendute circa 55 milioni di confezioni di Das composto per il 30% da amianto, un altro 30% da gesso e il restante 40% da altri materiali non specificati. Una percentuale non indifferente trattandosi di un materiale pericoloso. La questione è emersa grazie al prezioso contributo di alcuni ex dipendenti dell’azienda che hanno agevolato il lavoro dei ricercatori. Inoltre gli studiosi sono riusciti a trovare le fatture di acquisto dell’amianto che oggi si trovano nell’archivio di Stato di Torino insieme alla documentazione del produttore, l’amiantifera di Balangero. Lo scalino finale di questo studio è stato rappresentato dalle analisi di laboratorio sui prodotti originali che hanno confermato la presenza del pericoloso materiale. Il Das veniva poi esportato in Olanda, Inghilterra, Norvegia e Germania.

Questi studi dimostrano come ancora oggi non sia stato chiarito del tutto l’uso di amianto nel passato, pertanto ne emerge un utilizzo senza limiti che potrebbe essere giustificato da una presunta mancanza di conoscenze e informazioni relative alla sua pericolosità. In Italia l’amianto venne vietato nel 1992 e tenendo in considerazione questo dato si potrebbe chiudere la questione affermando che nel nostro paese ancora non si conoscevano i rischi causati da questo materiale, nonostante l’industria continuava ad utilizzarlo. Tuttavia, la tesi non regge, o per meglio dire vengono alla luce dubbi e interrogativi riguardo la relazione tra la reale conoscenza sugli effetti letali dell’amianto e la necessità di adottare misure preventive in quegli anni. Già nel 1935 vennero pubblicati i primi casi di carcinoma polmonare in soggetti asbetosici e il primo studio sull’argomento è contenuto nel rapporto annuale dell’Ispettorato del Lavoro Inglese del 1947.

Altre segnalazioni sulla pericolosità dell’amianto vengono dalla Germania e risalgono al periodo bellico, ma non finisce qui: stando ai dati del Dossier Amianto 2011 di Legambiente, altri studi americani che ne confermano gli effetti cancerogeni risalgono alla seconda metà degli anni Cinquanta. Tuttavia, secondo gli storici tali informazioni vennero occultate per minimizzare i rischi.

Per quanto riguarda l’Italia i primi studi sulle patologie da amianto risalgono al 1991 e vennero effettuati da Vigliani: solo l’anno seguente l’utilizzo dell’amianto è stato ufficialmente dichiarato fuori legge. Tuttavia, lo stesso Vigliani ricorda che un caso letale di asbetosi polmonare era stato riportato su una tesi di laurea dell’Università di Torino del 1910. Stando a queste informazioni e considerando che negli anni Settanta il Das veniva esportato dall’Italia all’Inghilterra, dove già si conosceva la sua pericolosità, possibile che nel Bel Paese non arrivò nessuna informazione sugli effettivi rischi del killer silenzioso?

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