La scultura pura di Luoise Nevelson alla fondazione “Puglisi Cosentino”

La scultura pura di Luoise Nevelson alla fondazione “Puglisi Cosentino”

“Dall’inizio il mio lavoro non è mai stato nero per me.

Non ho pensato mai in questo modo.

Non faccio la scultura e non è nera e non è legno o qualcos’altro,

perché ho sempre cercato altro. Cercavo una scienza”

 

Lei, Louise Nevelson, nata Berliawsky nel 1899, in Ucraina, ed emigrata nel 1905 negli Stati Uniti con la famiglia, in fuga dall’antisemitismo zarista, era una donna intelligente egocentrica ribelle, trafitta dalla depressione ma determinata a raggiungere i suoi obiettivi, con il suo foulard a scacchi, sigaro in bocca e ciglia grandi; teatrale nei comportamenti nel vestire e oracolare nell’eloquio, un’anima libera. In tanti anni trascorsi nella sensazione di una assenza dialettica con le proprie generazioni, però si trova in una condizione di avanzata esperienza e in sintonia con un cambiamento in atto sensibile di valori plastici, spaziali e concettuali; ci sono le premesse del minimalismo.

Naturalizzata statunitense, poco dopo aver raggiunto la maturità, poté sposarsi, nel 1920, con Charles Nevelson. A New York iniziò a studiare pittura, disegno, canto, arte drammatica e modern dance per padroneggiare tutta la sua creatività. Dall’unione nacque Myron Nevelson, ma la coppia si separò dopo dieci anni di matrimonio.

Fin da bambina lei era “l’artista” scriverà, ma già l’aveva annunziato a nove anni precisando: “non un’artista: voglio fare lo scultore; non voglio che il colore mi aiuti”. È riuscita davvero a diventare una grande scultrice e a dar vita a un linguaggio plastico potente: autonoma e personale ma ben consapevole dei raggiungimenti delle avanguardie, e al tempo stesso radicate in culture primigenie come l’africana, la precolombiana, l’indo-americana, di cui fu anche un’accanita collezionista.

La mostra curata da Bruno Corà per la Fondazione “Puglisi Cosentino“ di Catania, appena inaugurata è visitabile fino al 19 gennaio 2014, ed è stata realizzata dalla Fondazione “Roma Mediterraneo” e organizzata da “Civita Sicilia” con il patrocinio dell’Ambasciata americana e in collaborazione con la “Nevelson Foundation” di Philadelphia e la Fondazione “Marconi” di Milano (che la portò in Italia nel 1973).

La retrospettiva ci introduce in un percorso espositivo  attraverso le 70 opere di Louise Nevelson. Un’occasione rara per conoscere il suo lavoro, il curatore ha puntato sul linguaggio artistico, illustrandone al meglio la complessità strutturale, compositiva, culturale. Ostile alla teoria, Nevelson trovò la sua strada in modo intuitivo, se non istintivo. Nel suo bagaglio ci sono Picasso, maestro dichiarato, e il cubismo; il Dada, il surrealismo e il neoplasticismo, conosciuti prima in Europa, poi frequentandone i maestri (Duchamp, Ernst, Man Ray, Breton e Mondrian) rifugiati durante la guerra a New York; il costruttivismo russo, il futurismo e la metafisica di De Chirico e Morandi, con le scatole “vuote dei loro interni, senz’aria  da lei trasportate nelle tre dimensioni della scultura, sintesi di tradizione occidentale e precolombiana, tra rapporti di luce e ombra, pieno e vuoti.

Diversamente dai dadaisti, pone in evidenza il “vissuto del materiale”, il suo essere stato usato dall’uomo, corroso e frammentato dal tempo, senza una razionale progettazione.

Artista donna: si sentiva “donna, tanto donna da non voler portare i pantaloni. Gli uomini non lavorano in questa maniera, afferma l’artista, divengono troppo attaccati, troppo impegnati nel mestiere, o nella tecnica”… “ il mio lavoro è delicato, può essere vigoroso, ma è delicato. La vera forma è delicata. In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al femminile”.

Alla metà degli anni ’50 (era ormai quasi sessantenne)  la sua ricerca compositiva si avvia sull’idea dell’assemblaggio e della sovrapposizione prospettica di forme geometriche, che le procuravano la fama, e su queste punta naturalmente la mostra, non senza trascurare i disegni degli anni ’30, che provano l’effetto liberatorio esercitato dalla danza di Mary Wigman e Martha Graham sulla sua concezione del corpo e  dello spazio, nelle piccole sculture in terracotta legno e pietre dei ’40, molto già dominate dal nero. Tra quei materiali Nevelson sceglie in seguito il legno, ma il legno di recupero, trovato nelle strade e amato per la componente di memoria che incorpora in sé, ripercorrendo le vie del collage cubista, che si serviva di oggetti feriali (“diceva Apollinaire da lungo tempo intrisi di umanità”); ma anche di parti di mobilia recuperate nelle strade di New York. Questa singolarità rende espliciti molti temi che uniscono ancora oggi l’America e l’Europa quali: la memoria domestica e il ricordo. Prima sono forme libere (“table-top landscapes”), poi totem, colonne o “muri” formati dalla giustapposizione di alveoli lignei, strutture scatolari, ognuno dei quali contiene una forma: tutti unificati da un solo colore, quasi sempre il nero, poi anche il bianco (whith more festive) e l’oro “un modo che riflette il grande sole”; ma nel rigoroso rispetto del monocromatismo che la contraddistingue che la trasforma da “architetto dell’ombra ad architetto della luce” come lei stessa si definiva. La scelta cromatica ha riferimento con l’oro del sacro presente nella pittura delle antiche icone russe e nella ritualità ebraica e la fa risalire ai ricordi dell’infanzia, ai racconti degli emigranti che favoleggiavano delle strade delle città americane lastricate d’oro.

Le sculture secondo il suo pensiero devono aprire le visioni verso the fourth dimension (la quarta dimensione), indicata dall’arte cubista e dai suoi studi filosofici “la quarta dimensione non è ciò che si vede, ma la facoltà di completare ciò che si sta vedendo”… “se Picasso non ci avesse donato il cubismo, non mi sarei mai liberata del mio lavoro”. Continua l’artista “ho sempre voluto dimostrare al mondo che l’arte è dappertutto, solo che deve passare attraverso una creative mind(mente creativa).

Dal muro all’environnement il passaggio sarà quasi naturale e così lo è il passaggio alla dimensione pubblica, prima un po’ temuta poi amata, tanto che alla fine (muore nel 1988, carica di gloria) si definirà “architetto ambientale” . ”e quando sto lavorando e prendo decisioni che la mia vita è più emozionante: quando metto insieme le  cose e come le metto insieme. Questo lo chiamo energia livingness (del vivere), o essenza aliveness (della vitalità), perché si è pienamente vivi quando si lavora. Si toccano le vere fibre del significato della vita. Un bel docufilm arricchisce il percorso artistico, in cui la stessa Nevelson si racconta in prima persona tra le pareti del suo studio di New York e dai ritratti dei fotografi come Pedro E. Guerrero, Robert Mapplethorpe ed Enrico Cattaneo che hanno colto le sue ambivalenze e i suoi ossimori artistici.

Inoltre si sono attivati numerosi laboratori e attività didattiche, in programma alla Fondazione “Puglisi Cosentino” per far conoscere al grande pubblico l’arte e la figura di Louise Nevelson. Marina Cafà responsabile della fondazione afferma “con la grande antologica dedicata a Louise Nevelson, la fondazione prosegue il suo programma dedicato ai grandi maestri dell’arte contemporanea”.

 

 

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