La parola in chiave jazz a …Anthony Strong

ACICASTELLO – Non chiamatelo il sosia di Michael Boublé, né tantomeno la sua nemesi: Anthony Strong, nato a Croydon, Inghilterra, è riuscito ad affermarsi all’età di venticinque anni pubblicando il suo primo album da solista ‘Guaranteed’. Anche se chiudendo gli occhi e soffermandoci sulle sue canzoni,sembra quasi di ascoltare il grande cantante canadese, Strong, classe ’84 è un polistrumentista d’eccezione: basso, clarinetto, batteria e vibrofono erano i suoi compagni di studio sin da bambino, ed il pianoforte sarebbe presto diventato il suo primo strumento. ‘Ho amato la musica sin dalle scuole elementari’, risponde emozionato per la sua ‘prima performance in Italia’, ‘e ho capito che sarebbe stata la mia strada, così come il mio amore per il jazz’. Strong è stato l’ultimo ospite della XXX edizione della rassegna di Catania Jazz svoltasi allo Sheraton Hotel di Acicastello. In concomitanza del concerto, del  7 maggio, in  Italia è uscito il suo nuovo disco, Spepping out, formato da 14 brani da lui arrangiati.

Noi di Globus Magazine lo abbiamo incontrato ed ecco cosa ci ha detto.

Cosa ti attrae maggiormente di questo stile?

‘Il ritmo, la melodia, che non è mai la stessa: compongo spesso brani con molte variazioni e ciò mi regala stimoli nuovi, in quanto giocare con le canzoni è ciò che contraddistingue il jazz: potresti riascoltare un brano suonato in stili diversi, e ti sembrerà sempre diverso’.

‘Che tipo di cantante sei sul palco e durante la vita di tutti i giorni? Ti chiudi nel tuo guscio dopo un concerto o continui a comunicare col tuo pubblico?

‘Solitamente ‘on stage’ vinco la timidezza perché adoro il mio pubblico essendoci uno scambio energetico tra noi: riesco a sentire le vibrazioni che mi trasmettono dalla platea e le trasformo in energia positiva; quando sono solo preferisco chiudermi in me stesso e riflettere o ascoltare anche altri tipi di musica come la musica leggera’.

Tu sei inglese, e nel tuo paese vi è una realtà multiculturale abbastanza eterogenea: credi che musica come il jazz può servire a unire i ragazzi che cercano un’identità omogenea?

‘Non penso che si possa risolvere così il problema dell’eterogeneità, anche se il jazz essendo un filo condutttore tra generazioni diverse può comunque servire come unificatore, dipende dalla disponibilità di ognuno di noi ad entrare in empatia con l’altro diverso da noi’

A evidenziare il fatto che questo giovane artista non ha proprio nulla da invidiare da Michael Boublé, lo dimostra la sua conoscenza ferrata della musica, nel momento in cui li si chiede se ‘per caso hai mai avuto modo di ascoltare il soundtrack di ‘Lezioni di piano di Jane Campion, eseguito dal minimalista Michael Nyman?

‘Non solo ho avuto modo do ascoltarlo, ma l’ho anche eseguito, e spero che il grande maestro possa un giorno onorarmi della mia performance’.

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