Kurt Cobain, semplicemente un uomo

Viaggio negli abissi di una mente fragile e pura, attraverso i tormenti del leader dei Nirvana.

Qualche decimo di millimetro. E’ l’unità di misura dello stillicidio mortifero che condusse Kurt Cobain nel baratro. Una vertebra leggermente spostata, a tal punto da premere su un nervo. Non inclinata, non palesemente fuori posto, giusto “qualche decimo di millimetro”, oltre la soglia del normale. Questo gli causò perenni dolori allo stomaco, spesso insopportabili e in grado di fargli perdere il controllo. Esausto da tali sofferenze fisiche si gettò tra le braccia dell’eroina, sul finire del 1990, quasi a consacrarla a panacea di tutti i mali. Un sollievo effimero che lo proiettò in una dimensione ovattata, dove l’apice del suo disturbo bipolare toccò vette inesorabili e il contatto col mondo reale venne meno. I flash e le sfavillanti luci dello spettacolo stonavano con il grigiore smorto che albergava nella sua anima.
Era bello vedere Cobain su un palco, mentre imbracciava la sua chitarra dal lato sinistro e la bionda zazzera creava ghirigori polverosi nell’aria. Era leggiadro nelle sue pose aliene, un Nureyev in flanella che alternava la grazia innata del ballerino e la rudezza del boscaiolo. Quando però lo spettacolo finiva andava in scena la disgregazione dell’individuo, partendo dai lancinanti dolori allo stomaco, iniquamente alleviati da viaggi oppiacei. A nulla servì il tentativo di creare un prototipo di nucleo familiare, ponendo la figlia in cima alla sua vita. Quando sei condannato ogni passo è un lento avvicinarsi alla fine, e Cobain era conscio della sua condizione di decadenza.

Nelle sue canzoni riversava il suo grido d’aiuto, come se fossero fotografie delle sue pareti ormai crollate. I giorni passavano come riflessi distorti su uno specchio esanime, fino a quando Kurt scrisse la sua ultima lettera. “Ho bisogno di essere un po’ stordito per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino”. La disillusione che frantuma la spensieratezza del fanciullo, rendendo i sogni appuntiti come spilli.
“Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo un bambino incostante, lunatico! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.
La frase finale, presa in prestito da Neil Young, resterà impressa nella memoria collettiva, quasi a mascherare l’insostenibile pesantezza del suo essere. Di chi ha smosso coscienze adolescenziali ed ha veicolato una feroce rabbia, pura come il cristallo. Il colpo di fucile che pose fine alle sue sofferenze non può essere visto come la consacrazione del mito, quanto come l’estrema debolezza di un uomo. Non più alieno, rockstar inarrivabile, poster cosparso di colla o idolo incontrastato di una generazione. Solamente un uomo, che ha sfiorato la felicità provando ad agguantarla. Mancandola per “qualche decimo di millimetro”…

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