Il giardino Bellini di Catania: i bei tempi della “villa” dedicata al cigno

Le scritte e le figure floreali campeggiavano ai lati delle collinette: GIARDINO BELLINI, l’elefante simbolo della città sormontato dalla A di Sant’Agata, la Trinacria, le chiavi di violino, un passo di “Norma”.

CATANIA – Il Giardino Bellini com’era. Per i catanesi era e lo è ancora, semplicemente, “a Villa”: va bene solo il sostantivo in maiuscolo, perché che sia Bellini o Pacini o Platania a loro poco importava e alla maggior parte non interessava e non è mai interessato che i “cigni ‘nda vasca” erano lì in carne e piume in omaggio all’appellativo del compositore del melodramma Norma, il “Cigno”, appunto.

Varchiamo l’ingresso principale di via Etnea proiettandoci idealmente nel passato. Ma non andiamo troppo lontano, quando nel ‘700 il Giardino Bellini era proprietà privata di Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari e, solo nel 1854, venne acquistato dal Comune di Catania. Fermiamoci a un periodo recente dove le immagini sono già a colori: cinquant’anni fa, anno più, anno meno. Compagno di viaggio è un gruppetto di anziani che ben si prestano a tornare con la loro memoria storica a quegli anni. Ha nostalgia della “Villa” di quel periodo il sig. Antonio Ferlito, che ricorda le scritte e le figure floreali che campeggiavano ai lati delle collinette: GIARDINO BELLINI, l’elefante simbolo della città sormontato dalla A di Sant’Agata, la Trinacria, le chiavi di violino, un passo di “Norma”. Oggi sono totalmente sparite, come lo sono i cigni, che hanno lasciato il posto a esanimi  trampolieri di metallo. E di questo il sig. Giovanni Miano non si capacita, prende la parola e si accalora: ‘so che la notte se li mangiavano i cani o li sgozzavano i delinquenti, ma in tante altre città ci sono le vasche con i cigni, non bastava mettere un guardiano?’. Alla “Villa”, il tempo era scandito dal tondo calendario in erba situato sulla collinetta dietro la statua di Bellini: uno dei giardinieri del parco – allora come oggi – chissà se la notte dopo la chiusura o al mattino presto prima dell’apertura, aggiornava le cifre del giorno, e all’occorrenza, del mese e dell’anno. Era lo sfondo perfetto per le foto che molti conservano un po’ sbiadite, per consegnare alla storia personale le immagini col figlio, col nipote, con i famigliari o gli amici. Quello che colpiva favorevolmente lo sguardo erano le armoniche e scenografiche geometrie che, come ricami, circondavano il datario, curato con fare sapiente.

Sotto lo sguardo vigile del Cigno, a ridosso della vasca, le cifre delle ore e i puntini dei minuti rigorosamente naturali, facevano da riferimento alle colossali lancette di un mega orologio, che si dirigevano come enormi e infaticabili braccia in direzioni puntualmente esatte (oggi sono puntualmente ferme), ricordando a un passante distratto che era giunto il momento di comprare il pane che a casa si aspettava caldo, meglio se “cucciddatu” mentre il bimbo chiedeva se u purtau u pani papà; a un altro passante ricordava, invece, che era prossima l’ora di un appuntamento preso di fronte alla fontana dove pigramente, pur nondimeno vanitosi, nuotavano i cigni veri. In caso di incontro furtivo, era meglio vedersi vicino a “quello dello zucchero filato”, per non dare nell’occhio. Già, il soffice e gustoso zucchero filato di una volta. Lo zucchero sempre zucchero è, forse era il filato che faceva la differenza. Candido, come la barba dell’anziano che leggeva sul quotidiano edizione del lunedì le gesta del Catania che battè al Cibali 4 a 3 il Milan di Viani. Stava seduto sulla infinita panchina in ghisa che, insieme con la gemella di fronte, faceva da ala allo spiazzale in terriccio.

La domenica la musica permeava l’aria di arie d’opera e di brani di famosi compositori. Riprende il sig. Ferlito: ‘l’orchestra, diretta dal maestro Pennacchio, si esibiva nel chiosco adibito a palco, mentre gli spettatori erano comodamente seduti e gustavano il profumo del gelsomino che veniva venduto. L’atmosfera era festosa e si tornava a casa sereni; la “Villa” era considerata all’epoca il più bel giardino d’Europa”. Narrano le cronache che Il Comune ebbe l’idea di creare un piccolo giardino zoologico, affiancando i cigni che persero così l’esclusiva. Ecco spuntare i pavoni, che giravano liberi e indisturbati per i viali, un pellicano e addirittura un elefante indiano, regalato alla città dal circo Orfei. Ne sa qualcosa il sig. Orazio Bonaccorsi, che ci guida nella zona dove viveva il pachiderma, non tanto pachiderma per la verità, ‘perché non era molto grande e sembrava vecchio e sofferente di nostalgia. Lo avevano messo in un recinto basso e lui di notte è scappato ed è tornato al circo in piazza Alcalà’. Andiamo sig. Bonaccorsi, ma questa è una leggenda non una storia! ‘No no, è vero! Infatti il giorno dopo hanno messo dei chiodi lunghi così per non farlo scappare di nuovo’. Aveva un nome questo elefante? ‘Si, lo avevano soprannominato Tony. I bambini gli tiravano il pane e gli dicevano “Tony canta!” e lui faceva “uuurrrrhhhh”!! Portavo i miei figli a vederlo e si divertivano tanto’.

Nella zona del chiosco della musica vi era un’ampia voliera con uccelli di varie specie tra le quali i pappagalli, naturalmente anche rossi e anche gialli. In una piccola vasca tutta per loro c’erano anche le anatre, “i pàpiri”, che tanto piacevano alle coppie innamorate, e ispiravano l’uomo a guardare negli occhi l’amata e a sussurrarle “paparedda do me cori”. Discorso a parte meritano le scimmie. ‘La più famosa era Ginu ‘ra Villa’, ci racconta il sig. Antonino Mirone, sotto lo sguardo divertito dell’amico Orazio. ‘Era brutta e sgraziata e da qui il detto “au pari Ginu ‘ra Villa!” per sfottere qualcuno. Ce n’erano anche altre e dovevi stare attento che ti davano certi morsi se ti avvicinavi!’ Dalle scimmie alle automobiline a pedali e le biciclette bisogna percorrere un centinaio di metri per arrivare al grande spiazzale della “Villa”, meta obbligata per i bambini che amavano scorrazzare tra nuvole di polverone che il terriccio, percorso dai piccoli mezzi, sollevava. Era solito udirsi qua e là il pianto di un ragazzino che si era sbucciato un ginocchio dopo una caduta, ma questo, se allarmava la mamma apprensiva, faceva sorridere il padre che pensava a quanto temprante doveva risultare quel ruzzolone per il vigore del figlio.

Il nipotino del sig. Salvatore Marletta è, invece, ben al sicuro alla guida di un trenino moderno che al massimo fa ½ km all’ora. Il nonno si ricorda che veniva spesso qui da bambino, in quanto ‘abitavamo qui in zona, in via Umberto’. Che anno era lo ricorda? ‘La fine degli anni ’50. La “Villa” era più curata e i bambini si divertivano tantissimo a inseguirsi e fare le gare e magari alla fine nascevano delle amicizie e ci si ritrovava qui. Sembra un luogo comune dire che le cose del passato sono più belle ma io ero davvero felice’. Questa era “a Villa”, anima, cuore e agorà di una città che sognava, allora ancora in pieno boom economico, di essere la Milano del Sud, di gemellare Sant’Agata con la Madonnina, quella Catania dei catanesi fieri, quelli che, scriveva Brancati, sono un popolo che è nello stesso tempo – il diavolo sa in che modo – luttuoso e festaiolo, chiuso e rumorosissimo, di poche parole e di molte grida, sensuale e affettuoso, filosofo per natura e incolto in filosofia, l’unico che ami e apprezzi il sogno e la fantasia e l’ultimo fra i popoli che leggono opere di fantasia e di sogno. Ora sono ben desti e arrabbiati i catanesi. Pretendono di vedere risplendere e rifiorire, nel senso vero di questa parola, il Giardino del Cigno. E ai politici urlano furiosi che finalmente si destino anche loro, che siano fieri anche loro. Basta lavori incompleti, piante avvizzite e uccelli di ferro battuto. Uscendo su piazza san Domenico ci imbattiamo in un anziano che suona la chitarra sulla stessa panchina di quello della barba soffice come lo zucchero filato. Forse è un aedo di un epoca amena. Con ironico sorriso canta Formisano, …e vui durmiti ancora.

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