Degenerazione maculare della retina legata all’età: di cosa si tratta?

La terapia di tale patologia, che rappresenta l’incubo soprattutto degli anziani, è in rapido progresso. Ma essenziale rimane la prevenzione… La “macchia nera” al centro del “visus”

Per tutto l’arco della vita, un periodico controllo dell’apparato visivo s’impone, al fine di evitare o di curare in tempo utile talune patologie che, prima o dopo, alterano la qualità della vita.

Questo dovere nei confronti del nostro organismo è particolarmente tassativo in età avanzata, perché è in tale fase che emergono i risultati, spesso disastrosi, di una negligenza. Ed è nell’ambito di tale rischio che spicca una malattia che –come dimostra la stessa denominazione – esprime tutto il carico della sua presenza e della sua evoluzione nel soggetto anziano.

La “degenerazione maculare della retina legata all’età” è una patologia a carico, appunto, della parte centrale (e più sensibile) della retina, che si può presentare in due maniere: in una forma secca, più comune, che è caratterizzata dalla progressiva, quanto lenta, atrofia della macula, paragonabile al consumo del tessuto di un maglione in prossimità del gomito e una forma umida, correlata eminentemente con l’età piuttosto avanzata, contrassegnata da un danno oculare  insorto in un brevissimo lasso di tempo, a volte addirittura in pochi giorni, per cui la persona colpita dal processo patologico si trova a passare dall’assoluto benessere visivo a gravi difetti funzionali, che si estrinsecano con l’insorgenza di una macchia nera al centro della vista, seguita da una progressiva compromissione del visus.

Questa condizione è ovviamente molto più grave e va affrontata al meglio.

Inquietanti le cifre dell’epidemiologia: già oggi soffre di questa patologia il 16% degli italiani over 50, tra i 65 e 74 anni. Con l’aumentare dell’età si ha una crescita esponenziale dei casi: attualmente hanno problemi di questo tipo 27 persone su 100 sopra i 75 anni!

Ciò che più preoccupa – come riferito recentemente in un incontro scientifico nella Capitale dalla dottoressa Monica Varano, responsabile del servizio Retina medica della Fondazione Bietti di Roma e come ribadito da Gianna Schelotto, psicanalista e psicoterapeutica -, visto anche l’incremento dell’età media della popolazione, è soprattutto il trend futuro: le stime dicono che i casi nei paesi industrializzati come l’Italia sono destinati a aumentare entro il 2020. Queste cifre, ovviamente, fanno riferimento alla totalità dei casi di malattia, comprendendo le due diverse varianti.

In Italia, l’80 per cento dei casi di malattia è legato alla forma secca, meno grave, ma nel 20% delle persone che soffrono di questa patologia è presente la forma umida, che porta a grave riduzione del visus e può condurre anche a cecità.

È su questi pazienti che dobbiamo concentrare la nostra attenzione, perché sono a maggior rischio di gravi problematiche.

Il danno, infatti, s’instaura in pochissimo tempo ed è legato alla neovascolarizzazione tipica della malattia.

In pratica, sotto la retina crescono nuovi vasi, che si sviluppano in direzione della macula, ovvero la zona centrale della retina stessa. Questo “sviluppo anomalo” di nuovi vasi causa un sollevamento della retina, che si deforma in modo estremamente significativo, portando quindi in breve tempo ai classici sintomi della degenerazione maculare. Per questo, in tali casi, l’obiettivo terapeutico fondamentale è quello di bloccare la crescita dei nuovi vasi (angiogenesi) alla base della forma umida.

Sul fronte clinico, il paziente comincia a vedere male, nelle condizioni che causano il coinvolgimento dell’area centrale della retina e quindi impegnano questa zona, per esempio leggere o scrivere, o comunque nei casi in cui occorre fissare con la massima definizione un determinato oggetto. Inoltre ha una visione deformata.

Questo fenomeno è tumultuoso e si può verificare in pochissimo tempo.

E le sue ripercussioni sulla qualità della vita sono talmente drammatiche da portare assai spesso a forme depressive gravi.

Si può facilmente comprendere come il rischio di patologie associate sia elevato: la malattia colpisce persone anziane, che in molti casi vivono sole e soprattutto sono abituate a rapportarsi con il mondo che le circonda attraverso la visione, per esempio la televisione.

Vari, al riguardo, sono i fattori di rischio: innanzitutto la predisposizione genetica a ammalarsi, visto che sono stati individuati precisi genotipi correlati con la patologia; poi i danni cronici all’occhio, che possono venire dalle radiazioni ultraviolette, ovvero da un’eccessiva e protratta esposizione al sole.

Sul fronte alimentare, la dieta mediterranea è protettiva nei confronti di questa patologia, mentre va considerato tra i fattori di rischio uno stile alimentare di tipo “americano”, fatto di cibi ipercalorici e soprattutto ricchi di grassi animali. Infine è sicuramente dannoso il fumo. Attenzione però: questi fattori di rischio agiscono sul lungo termine, nell’arco di decenni, quindi non è sufficiente che nel momento in cui si riceve la diagnosi dall’oculista si proclami di smettere di fumare, di adottare uno stile alimentare più sano o di evitare una sovraesposizione ai raggi solari. Potrebbe essere già tardi per ottenere risultati significativi.

Per proteggersi, soprattutto in presenza di una familiarità della degenerazione maculare retinica legata all’età, bisogna puntare sulla prevenzione fin dalla più giovane età. Riguardo alla terapia, sino a vent’anni addietro le possibilità risultavano tanto poche da rasentare il nulla. Poi venne la fotocoagulazione con il laser, volta a distruggere l’area della retina interessata dal processo di neovascolarizzazione: ma all’efficacia di una tale metodica può fare purtroppo riscontro una riduzione piuttosto marcata della capacità visiva, fenomeno questo riducibile con l’impiego di un’alternativa, la verteporfirina, farmaco in grado di stabilizzare la capacità visiva, inducendo però un effettivo miglioramento solo in una percentuale assai bassa di casi.

La svolta venne impressa, in un primo tempo, dalla scoperta e dall’uso di una famiglia di farmaci “anti fattore di crescita della membrana interna dei vasi sanguigni”.

Ma anche con tale trattamento, il successo risultava parziale.

É infine iniziata pochi anni addietro l’era degli anticorpi monoclonali (dapprima il bevacizumab e poi il ranibizumab), iniettati direttamente nell’occhio al ritmo medio di una iniezione al mese: schema questo che è però difficile da attuare per l’impegno che comporta per i pazienti, come anche per le strutture oculistiche. Ed è proprio in tale filone terapeutico che viene adesso a inserirsi una nuovissima molecola, l’aflibercept, ovverossia una proteina umana, che oltre a risultare più potente e completa nella sua azione di contrasto dei nuovi vasi sanguigni, risulta capace di ridurre le trasudazioni di liquido e l’edema, bloccando il fenomeno e migliorando di molto il ritmo della posologia. Una dose di carico iniziale (una iniezione intraoculare al mese per i primi tre mesi) e poi soltanto una iniezione a mesi alterni per un complessivo di sette sedute, a tutto vantaggio della compliance del paziente. Il preparato è stato registrato in Italia e è già in uso con il beneplacito del servizio sanitario nazionale. Essenziale, pur tuttavia, la prevenzione (attenzione particolare alle sigarette e ai raggi ultravioletti del sole) e una diagnosi quanto più precoce.

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