“Catania bene”, l’ultimo libro di Sebastiano Ardita sullo sviluppo di Cosa nostra

 Dagli anni Settanta alla trattativa Stato-Mafia fino a Cosa nostra catanese.

Per il nostro magistrato-scrittore Sebastiano Ardita, tra borghesia e mafia c’è sempre stata una grande convergenza d’interessi comuni, come spiega nel suo libro “Catania bene”.  Sopratutto, da quando nella nostra società malata, il profitto immediato e la voglia d’emergere, sono diventate per molti, l’unico credo per portarsi avanti in qualunque modo. Infatti, si sofferma l’autore, per entrare a far parte di Cosa nostra, si passava prima dalla delinquenza comune, e cioè da quello stile di vita, che ci si adatta un po’ per tendenza naturale ed un po’ per realizzare i propri desideri a qualunque costo.. però all’interno di Cosa nostra era diverso, poiché esistevano anche delle regole di condotta morale; per cui gli uomini d’onore si dovevano distinguere dalla malavita comune.

Era così presente fra loro, il culto della famiglia, e quantomeno sul piano delle apparenze, vigeva la cosiddetta “cultura mafiosa” fatta di vizi privati e pubbliche virtù; esattamente lo specchio di quella buona borghesia raccontata dal Brancati. Ma in questo ampio quadro descrittivo, sulla ricerca delle più profonde cause del formarsi della natura mafiosa, non poteva mancare nel libro di Ardita, un presidente del tribunale dei minorenni con esperienza ventennale, come il Giambattista Scida’. Che appunto sostiene come la questione minorile, sia proprio il punto di partenza per comprendere non solo la natura della mafia catanese, ma sicuramente anche la genesi di ogni altro tipo di mafia; per poi usare la strategia dell’inabissamento e dell’infiltrazione non solo fra i più alti burocrati dello Stato.

Dagli anni Settanta, cioè da quando si moltiplicarono i settori d’interesse criminale, si fecero anche più aspri e spietati i conflitti fra i gruppi malavitosi, che erano sempre più alla ricerca di spazi sul territorio dove poter dominare. Ma questo modo di contendersi la supremazia territoriale, cominciò a disseminare tanti morti ammazzati, inizialmente solo tra le cosche. E fu proprio a causa di questo tipo di feroce dinamica iniziale, rivolta a se stessi, che il catanese medio pensava: “ma finu a quannu s’ammazzanu ntra di iddi..” Comunque, il “modus operandi” della mafia catanese, sottolinea Ardita, è profondamente diverso dalla logica stragista dei corleonesi di Totò Riina; quest’ultima, non gradita a Cosa nostra catanese di Nitto Santapaola, che si è da sempre focalizzata nelle compromissioni da una parte e dall’altra; senza mai dare nell’occhio e in silenzio, e più inerenti alla logica della famosa trattativa Stato-mafia, di cui si parla tanto fino ad oggi. Tale logica, si trova ovunque ci sia un politico, un burocrate o un magistrato che non fanno onestamente il proprio lavoro.

E se un catanese onesto, volesse davvero professarsi tale, dovrebbe sempre ricordarsi di leggere di tanto in tanto, quei libri scritti da chi da sempre ha cercato di combattere la mafia, rischiando o perdendo la propria vita come Pippo Fava. Affinché, non si rischi di assuefarsi a quella miserabile ed inumana verità parallela, che spesso abbiamo dietro casa, e che continua fino ad oggi a tessere con abilità rapporti con le istituzioni. Per continuare a nutrirsi con la stessa dinamica di sempre; cioè compromettendo il politico, l’ufficiale o il burocrate di turno. E continuando a farci vivere una pericolosa e apparentemente tranquilla normalità.. ecco perché ci si dovrebbe ricordare di quella frase di Fava che recita: “Che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare”.

Ed è sempre quella pericolosa e apparente normalità, dove ciò che doveva essere intuito non è mai stato intuito; come quando i soldi entrano troppo facilmente nelle realtà aziendali e senza sapere da dove provengano, come per esempio per le sale Bingo.. o quando, invece di non chiedersi chi è che investe in un centro commerciale, creato da attività illecite già da tempo documentate, dovrebbe almeno chiedersi se in un prossimo futuro, proprio lì, per mancanza di altro lavoro, potrebbe essere costretto a cercare un posto di lavoro anche per i suoi figli. Poiché è ormai risaputo che è quella condizione di sudditanza, voluta e creata da una certa politica collusa da sempre con troppe mafie, che fa di tutto per mantenere questa condizione di sottosviluppo, bloccando per prima cosa il lavoro. Affinché si mantenga quel terreno fertile clientelare, che agevoli e protegga sempre quella dinamica politico-affaristico mafiosa su tutto e su tutti.

E ancora, sottolinea Ardita, non dobbiamo mai dimenticare, che Catania, è quella città dove la mafia metteva a tacere il vero giornalismo dell’informazione libera, come il famoso “I Siciliani” di Fava, poiché proprio quel blocco sociale politica-imprenditoria e mafia, ha bisogno di un forte collante, che si traduce in un monopolio dell’informazione. Come era appunto il quotidiano “La Sicilia”. Non a caso Pippo Fava, viene screditato con un articolo scritto proprio da alcuni suoi colleghi, il giorno dopo che lo uccidono. E che fa causare il suo omicidio, a quel suo modo di dare fastidio a troppe donne, di cui qualcuna, evidentemente era di un uomo di rispetto.

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