Attila: invincibile in battaglia, superstizioso, istintivo in amore, inetto nell’intrigo

L’ultimo capolavoro del librettista Temistocle Solera

“Eccoti lo schizzo della tragedia di Verner. Vi sono delle cose magnifiche e piene d’effetto. Leggi l’Allemagna della Staël. Sono di parere di fare un prologo e tre atti. Bisogna alzar la tenda e far vedere Aquileja incendiata con coro di popolo e coro di Unni. Il popolo prega gli Unni minacciano etc. poi sortita di Ildegonda poi di Attila etc. etc. … A me pare che si possa fare un bel lavoro e se studierai seriamente farai il tuo più bel libretto”. Così Verdi scriveva a Francesco Maria Piave nell’aprile di 1845.

Attila è l’ultimo dei libretti firmati da Temistocle Solera, Piave subentrerà nel finale dell’opera poiché sul punto Verdi e Solera entrarono in dissidio. Il “cigno di Busseto” aveva già frequentato la drammaturgia in prosa con Ernani; dopo Attila seguiranno Macbeth, Rigoletto (Le roi s’amuse), La traviata (La dame aux camelias), Don Carlos, Otello (Il moro di Venezia): la frenetica ricerca di testi nei quali esprimere la sua musicalità, soprattutto negli “anni di galera”, lo portava a cimentarsi con le trame più complesse attingendo a tutte le fonti.

In Attila Verdi, fidente nei suoi mezzi espressivi e musicali,  spinge alla sperimentazione di nuovi effetti attraverso l’introspezione dei personaggi svelando, allo stesso tempo, tempra di intellettuale attento a cogliere le nuove pieghe del romanticismo. Il dramma di Zacharias Werner mise in scena un potpourri di leggende e fatti storici, collocati impropriamente nei dintorni di Aquileja: la “conquista”, casuale facilitata dal crollo di parte delle mura della città, la ferocia del condottiero unno stemperata dall’interesse per le fanciulle scampate al massacro e per il fiero atteggiamento di una di esse sino al dono imprudente del suo gladio, l’incontro con Papa Leone Magno che lo induce a desistere dal marciare alla conquista di Roma (l’incontro avvenne sul Po nei pressi di Roncoferraro). Uno sviluppo drammaturgico “gotico” nel quale Verdi vide la possibilità di trasfondere in musica quegli esperimenti suggestivi cui puntava per dar vita a un linguaggio musicale, particolarmente espressivo e d’effetto per l’epoca, che mostra un autore già maturo, consapevole e padrone dei propri mezzi, proteso a suggestionare e stupire un pubblico competente e smaliziato.

L’edizione messa in scena dal “Bellini”, a 35 anni di distanza dalla precedente, si è avvalsa della regia di Vincenzo Pirrotta, assistente Alessandro Idonea, e della direzione d’orchestra di Sergio Alapont; scene Salvatore Tropea, luci Salvatore Da Campo; coro orchestra e tecnici dell’Ente. Nel cast: Carlo Colombara (Attila), Carmelo Corrado Caruso (Ezio), Dimitra Theodossiou (Odabella), Sung Kyu Park (Foresto), Giuseppe Costanzo (Uldino), Concetto Rametta (Leone). Un’esecuzione che è piaciuta; un’opera “nuova” nelle quale il regista “all’idea della messinscena, mi sono subito arrivate immagini che, pur raccontando una storia avvenuta nel 452 d.C. e rimandata … soprattutto dalla carica evocativa della sublime musica di Verdi”  ha intravisto e denunciato molti elementi d’attualità: la barbarie contemporanea (Isis e dintorni), confronti e scontri tra emisferi politici, esuli inermi e disperati, comportamenti ambigui e amorali; vita e morte considerati non per la loro valenza, ma come passaggi strumentali funzionali ad affermare e/o negare “interessi” e “giochi”. Il dissidio tra Solera e Verdi sul finale emerge e “torna” nella regia di Pirrotta. Il pubblico ha applaudito convintamente e a lungo.

Conclusa con due autentici “cammei” la stagione 2014 di lirica e balletti del Teatro “Bellini” di Catania

Mancavano da Catania rispettivamente da quattordici e trentacinque anni “I Capuleti e i Montecchi” e “Attila” dei “Cigni di Catania e di Busseto”, Vincenzo Bellini e Giuseppe Verdi: le due opere liriche con le quali si è conclusa la stagione 2014 di lirica e balletti del Teatro Massimo “” di Catania. In esse, entrambi, profusero invenzioni e suggestioni straordinarie, determinanti per i loro trionfali successi nei teatri del mondo, imponendosi all’attenzione e agli esigenti palati del pubblico dell’epoca, realizzando una fusione tra musica e testo teatrale pronuba dei trionfi che attendevano i due compositori italiani nel mondo.

Una stagione tormentata da problemi di ogni genere e tipo, chiusa per la generosità e l’impegno umano e professionale del Teatro in tutte le sue componenti: orchestra, coro, tecnici e soprintendenza.

Doveroso spendere due parole sulle vicende che hanno messo a dura prova tutti, incluso l’affezionato pubblico di esperti e appassionati del genere, consapevoli, ben più di politici burocrati e legislatori, della straordinaria valenza di una struttura monumentale rinomata nel mondo, ambita dai maggiori interpreti.

I teatri, tutti i teatri in genere, sono organismi delicati, non palestre per giochi ed esercizi di potere, stipendifici per clientele, satrapie per vanagloriosi, occasioni autoreferenziali per carriere immaginate e sperate a spese della città e della cultura.

I teatri sono impianti, macchine, documenti, archivi magazzini e depositi, storie, professionalità, produzione, pubblico, fenomeno sociale e culturale, confronto e scambio con i circuiti nazionali e internazionali. L’ottica per la quale si chiede maggiore serietà e impegno da parte delle istituzioni va inquadrata, almeno, in questo schema sommario. Catania e i catanesi sono orgogliosi del loro Teatro Massimo, sono e si sentono mortificati da vicende poco edificanti in tutti i sensi. Chi ha da intendere intenda.

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