Con Capuleti e Montecchi, il teatro Bellini di Catania festeggia l’anniversario della morte del Cigno

L’opera che Bellini volle dedicare ai concittadini nel 1830 ha riscosso un buon
successo.

Quando Catania era non quella d’oggidì, ma la bella Catania, una città piena di amore sin nei profumi del mare e dei gelsomini che giungevano dalla Statua a Sardo, annottando (seppure ancor oggi, segretamente, talune atmosfere solo per gli iniziati al vero culto belliniano si manifestano), l’anniversario della morte di Vincenzo Bellini era non una festa, ma la celebrazione più sentita di quelli che erano detti (nel secolo XIX che fa da riferimento) i figli prediletti della città.
Pochissimi furono essi, precisamente tre: Bellini, Rapisardi e De Felice. Il 23 settembre tutta ma proprio tutta la catanesità vera -adesso è quasi estinta￾riversavasi pria in piazza Stesicorea appiè del monumento del Monteverdi, ornato di ghirlande floreali, poi insino al Duomo, ove dopo essere stato trasportato da Parigi nel 1876 (e noi ci chiediamo, e gli chiediamo sempre, se ne sia oggi contento: allora si, adesso avrebbe molti dubbi) riposano le spoglie del genio biondo, rivestito della divisa della Legione d’Onore di Francia. Era una fiumana di popolo, soprattutto i meno colti, il popolino delle sartine alla Guido Da Verona e dei barbieri che però sapevano a memoria ogni aria d’opera belliniana, che rendeva omaggio al nume moderno. Non molto tempo fa: basti visionare i cinegiornali della Settimana Incom fino agli anni ’50 e ’60 del Novecento. Un vero e proprio culto che fu in qualche modo mantenuto, vivente la generazione che chiameremo dei veri belliniani (gli amanti di lui come personalità artistica e soprattutto umana e psicologica): finché quella stirpe si è estinta.
Si è voluto, la sera del sabato 23 settembre al teatro che porta il suo nome, ricordare il 187° dalla morte del Cigno, allestendo l’opera “Capuleti e Montecchi“, più volte data al Bellini nei lustri scorsi e da noi seguita. Contemporaneamente, la bella opera in due atti (“tragedia lirica” secondo il libretto di Felice Romani) si da alla Scala, all’Opera di Parigi con la direzione di Speranza Scappucci, al teatro Verdi di Trieste e in altri teatri europei. A volte parci che i cartellioni dei teatri europei e del continente americano siano concordati a monte perché tutti esprimano, non sempre adeguatamente, le stesse note: sarà una supposizione complottarda, chi lo sa. Certo è che ricordarlo nella sua città, a cui egli vòlle dedicare Capuleti (“Ai Catanesi il lontano Concittadino nel musicale arringo
sudante d’onorevoli dimostrazioni liberali confortavano…”) poiché il suo pensiero mai si distaccò dalla Patria avita e dalla comunità d’origine, in codesto modo, da parte del gruppo di eventi definiti con termini anglomani ma che noi chiameremo Festività belliniane di settembre, è stata scelta se non originalissima, indovinata.

Opera questa, come si sa -o meglio come sanno quei pochi che s’immergono nelle pagine dei libri e delle carte belliniane (non sul web!) composta in brevissimo tempo per contentare quel teatro alla Fenice di Venezia che tanto dimostrò al Nostro affezione, come tutto il popolo veneziano che già era in furore pel Pirata. Il compositore n’ebbe i primi sintomi di quel “raffreddore” come lo chiamava -lo spleen di Baudelaire-, che lavorando indefessamente a comporre, ne iniziò a minare l’anima prima del corpo, coll’epilogo che sappiamo. Chi ultimamente ancora ciància di avvelenamenti o similia, non conosce bene chi veramente fu Vincenzo Bellini: sbalzato tra le crine morbide del contralto sopranile Giuditta Grisi, che gli si gettò addosso (sessualmente, tanto ch’egli si affrettò a smentire alla donna che in quel momento tanto lo amava e che per molti giorni non gli scrisse proprio perché le erano arrivate voci di codesta passione, ovvero Giuditta Cantù Turina) ottenendo la parte di Romeo: e mentre Vincenzo si premurava di inviare a Casalbuttano le ostriche e “un cagnolino” per Giuditta e la “mamma milanese” Pollini, doveva pure badare alle bizze della Grisi, ai pettegolezzi della Contessa Samoyloff che con la scusa dei geloni ai piedi “non verrà più a Venezia” perché invischiata col collega rivale Giovanni Pacini a cui era stato dato l’incarico dell’opera ma che non si fece vivo, indi subito sostituito da Bellini, come per volere dell’impresario della Fenice. Che ne sanno i narratori postumi delle trame dell’anima del passionale giovane che teme i “cani cantanti” e poi s’esalta quando l’undici marzo del 1830 il pubblico osanna la Grisi (Romeo), la Carradori (Giulietta) e il tenore Bonfigli, con cui aveva litigato al punto di dirgli “Signore, mio padre mi ha insegnato a scrivere ma anche ad usare la spada!”. Sempre l’onore siciliano, citato anche nel libretto di Romani, fu “l’ultrice spada” del Nostro.
Per tornare ai Capuleti del 2022 nella attuale Catania, pallida eco con brandelli di perduto amore (per dirla con Franco Battiato) di quella che fu, la prima dell’opera ebbe a protagonisti la spagnola soprano Ruth Iniesta (Giulietta) e il mezzosoprano palermitano Chiara Amarù, nella parte di Romeo. E’ purtroppo invalso nell’ultimo centennio il vezzo di affidare le parti di alto e soprano secondo al mezzo, quando Bellini non scrisse per questa caratura vocale, la cui nascita e il cui merito va solo a Gioacchino Rossini, che del resto Bellini adorava (ma ragionando sempre con la propria testa). Prendiamone atto senza però dimenticare la partitura. E diciamo subito che la Amarù ha una voce limpida, tonale, abbondante negli acuti, equilibrata, forte: decisamente voce rossiniana, assolutamente non belliniana. Ciò non toglie che anche se modifica la volontà dell’autore, non abbia ben retto il ruolo. Ma non è certo quel che Bellini, anzi Giuditta Grisi, avrebbe voluto udire: se è vero che a qualche acuto di troppo, alla seconda rappresentazione veneziana (ci riferiscono i colleghi della critica del 1830) il compositore rinunciò proprio perché li ritenne non adatti. Invece la Iniesta parve a noi del tutto ben adagiata nel ruolo di Giulietta, con una tessitura vocale che non ebbe sbavature e dimostrò una abilità ben consolidata nel ruolo.

Sufficientemente valido il tenore leggero Marco Ciaponi nel ruolo di Tebaldo (anche se alla fine si sforzò in acuti che non gli pertengono) , buona resa per i bassi Antonio Di Matteo e Guido Loconsolo (Capellio e Lorenzo). La regia di Gianluca Falaschi fu ridotta all’essenziale,
scene inesistenti, solo un quadro fisso; dati i tempi di recessione ovunque, non ci meravigliamo: ma lo spuntare sul palco, nella scena del matrimonio sognato, di una macchina fotografica a lastre (stile Enzo Turco e Totò nella celebre scenetta del film “Miseria e nobiltà”) fu davvero nota stonatissima, anche perchè la stessa fotografia… non era ancora stata inventata nel 1830! Ottima resa scenica sia del Coro del teatro di cui è nota l’abilità attoriale, che della orchestra, ultimamente ravvivata da nuovi elementi, in questa occasione diretta senza tentennamenti e nel rispetto della filologia, dal Maestro Fabrizio Maria Carminati, Direttore artistico del Bellini. La diretta tv su Rai5 ha contribuito alla celebrazione belliniana. Il pubblico tributò, oltre agli applausi di occasione durante le arie, i soliti sette-otto minuti di applausi (ormai per giungere al quarto d’ora, anche per Bellini, servono miracoli laici, dovrebbe risuscitare la Sutherland e soprattutto, il pubblico della Sutherland). Tra i presenti (sorvoliamo per carità di patria sui colori delle giacche e camicie di uomini, le signore e signorine in maggioranza
ebbero vestiti adeguati; pochissimi uomini in papillon) la Real Delegazione di Sicilia e Malta della Casa d’Epiro e la Legione Garibaldina Comando per la Sicilia. Facciamo cènno al fatto, tornando a ciò che all’inizio precisammo, che il teatro non era affatto pieno anzi: dal secondo ordine in poi del tutto vuoto (pure in platea qualche gruppo di posti). Altresì in contemporanea tre eventi, non belliniani ma musicali allo stesso orario, si svolgevano in centro storico. Come dire, nella Catania del 21° secolo non manca certo la fantasia (non al potere però, parafrasando il Presidente Poeta).
Quanto lontana, riflettemmo, la storia belliniana di Romeo che s’uccide per amore -e quanto reale nel secolo decimonono era- dai tempi odierni, tanto da risultare quasi avulsa dalla realtà. Lo stesso Tebaldo che dichiara: “L’amo, ah! l’amo, e mi è più cara più del sol che me rischiara; è riposta, è viva in lei ogni gioia del mio cor. Ma se avesse il mio contento a costarle un sol lamento, ah! più tosto io sceglierei mille giorni di dolor” è quasi impossibile da rinvenire oggidì, in chi sacrifica il proprio sentimento, al fine di veder sorridere la creatura amata. Forse qualche etichettato di “ossessione”, avrebbe detto Visconti, ancora esiste: ma è ossessionato Romeo che con Giulietta canta: “Se ogni speme è a noi rapita di mai più vederci in vita, questo addio non fia l’estremo; ci vedremo almeno in ciel.

Piomba, o notte, a al ciel contendi lo spettacolo crudel”? Non per il mondo di allora, oggi sarebbe considerato fuori di sènno. “Così scordarmi, così lasciarmi, non puoi, bell’anima, nel mio dolor”, e fatalmente s’avvelena. La tragedia si compie: ma è difficile farla intendere ai distratti dai telefonini ed a chi antepone la materialità di Mammòna al sentimento. Le melodie immortali di Bellini in quest’opera, non “di limbo” come scrisse la Cambi ma trampolino di lancio per le successive celeberrime, ciò vogliono suggerire. Nell’appena trascorso Novecento, lo sintetizzò bene Pablo Neruda : “Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore”. Chi sa cogliere le pietre e levigarle, lo sa: gli altri, rimarranno felicemente Papagheni.

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