Alle 8 del mattino del 9 settembre 1998, nell’ospedale San Paolo di Milano muore uno tra i più grandi, influenti e innovativi cantanti e musicisti italiani, lui era Lucio Battisti. Aveva 55 anni e ancora una lunga carriera artistica davanti
Lucio non aveva un carattere affabile, ne sa qualcosa Giulio Rapetti Mogol in arte Mogol, paroliere (autore, come lui preferisce definirsi) e produttore discografico. Insieme iniziarono un fortunato sodalizio artistico, quasi un’alchimia magica, fin dai primissimi anni sessanta. Battisti era un artista eclettico, nelle sue canzoni riusciva a combinare diverse tipologie di musiche che andavano dal rhythm and blues al disc music, dal folk al soul e al beat. Un vero genio della musica, anche se spesso fu accusato di essere simpatizzante del fascismo e di non avere doti vocali, non per niente faceva pochi concerti negli stati o nei teatri. Andava in giro in una FIAT cinquecento perché non amava la vita mondana da riviste patinate. Sin da piccolo si isolava da tutti, sostenendo che un artista si deve esprimere attraverso le sue canzoni. Non concedeva autografici, figuramici se avesse tollerato i selfie. Le sue canzoni sono indimenticabili, dei veri evergreen della musica italiana, cantate anche dai più giovani che non l’hanno neppure conosciuto. Il giorno della morte di Battisti la notizia si diffuse subito tra i centinaia di fan che stavano sotto l’ospedale. La moglie e il figlio vietarono la camera ardente a tutti, come i funerali che si svolsero al cimitero in forma privata. Non si sa dove è sepolto il corpo, perché la vedova era infastidita dai tanti pellegrinaggi dei suoi fan. “In un mondo che non ci vuole più/ Il mio canto libero sei tu/ E l’immensità si apre intorno a noi al di là del limite degli occhi tuoi”